L'intervista
25.06.2018 - 13:30
Da piccolina, a soli otto anni, giocava a fare la giornalista intervistando con il registratore i vicini di casa. A diciotto, durante l'esame di maturità, quando disse alla commissione che voleva diventare una giornalista, gli esaminatori risero. Non sapevano che quella ragazzina ce l'avrebbe fatta. Che sarebbe diventata quello che sognava di diventare.
Lei è Raffaella Regoli, giornalista e autrice televisiva. Da vent'anni lavora per le reti Mediaset, a Milano. Ma Raffaella è una ciociara doc. Vive in Ciociaria, a Isola del Liri, fino a venticinque anni. Poi per lei si aprono le porte della tv. Ma nella sua terra d'origine, ci dice, torna ogni volta che può.
Vive a Milano, ma ha origini ciociare. Quanto è legata a questa terra e cosa rappresenta per lei?
«Le radici sono la nostra storia, ci nutrono e ci raccontano chi siamo. Sono andata sempre fiera delle mie origini ciociare. Non è stato facile andare via, ho lasciato famiglia e affetti. Ma fin da piccola avevo chiaro in mente quello che volevo diventare. A Isola del Liri, dove ho vissuto per venticinque anni, dopo aver lavorato per sei anni come corrispondente al "Messaggero", non c'erano prospettive. Così ho fatto le valigie e sono partita».
Lei non ha mai rinnegato le sue origini. Durante la presentazione del suo libro "Il male ero io", proprio a Isola del Liri, disse: "Io mi definisco ciociara e mi sento ciociara". Cosa porta con sé della Ciociaria una donna che va via quando è ancora una ragazza e poi riesce ad avere una carriera come la sua?
«Ho portato con me la caratteristica della mia gente: siamo come la nostra terra, una terra rocciosa, aspra e forte. Ecco, penso di avere dentro il Dna di queste zone: è stata la mia forza, insieme ai valori che mi hanno trasmesso i miei genitori. Quando sono arrivata a Milano mi sentivo come in "Totò, Peppino e la…Malafemmina". Seguivo tutti gli spettacoli teatrali, andavo al cinema in pausa pranzo, volevo imparare,volevo recuperare il gap culturale».
Però i primi passi nel giornalismo li ha mossi in questa provincia...
«Ho iniziato a diciotto anni in una tv locale, Liri tv: quante risate! Facevamo tutto: conducevamo il tg, giravamo, preparavamo i servizi. Ma io amavo scrivere. Così chiesi a mio zio, Costanzo Costantini, che allora era la firma di punta della pagina culturale del "Messaggero", di mettermi in contatto con la redazione di Frosinone. Quando lo incontrai, il direttore de "Il Messaggero" di Frosinone mi disse:"Ciociaria Oggi ci batte su tutto. Ti metto alla prova per tre mesi, mi devi coprire Isola del Liri, Arpino, Fontana Liri, Arce e Sora. Ti pago poco ma se scrivi bene ti faccio firmare i pezzi". Ci sono rimasta per sei anni, mentre studiavo all'Università La Sapienza di Roma. Quando mi chiedono perché ce l'ho fatta, rispondo sempre che non ero la più brava di tutti, sono stata solo un po'più coraggiosa».
Com'è riuscita ad arrivare dov'è oggi?
«Fare il corrispondente di un giornale locale è stata una grande palestra. Quando sono riuscita a entrare, dopo un esame durissimo, all'IFG, la scuola di giornalismo della Regione Lombardia, non avevo idea di quello che mi aspettasse. Non è stato facile. Di difficoltà ce ne sono state tante. Mio padre era morto da pochi mesi, mia madre ha fatto uno sforzo immane per farmi studiare a Milano. Io frequentavo la scuola di giorno e di notte scrivevo. Collaboravo con una rivista che si chiamava "Storia Illustrata". Ho iniziato a lavorare a Tele Lombardia, tutti i giorni, all'alba e sottopagata. Al secondo anno la scuola ci ha procurato gli stage in Mediaset, io sono stata assegnata a "Studio Aperto", il tg di Italia Uno. È cominciato tutto da lì. È cominciato da un scoop sul caso "Marta Russo": mi sono chiusa cinque ore nel bagno delle donne del Tribunale di Roma per filmare gli arrestati. Mi è valso la telefonata di Bruno Vespa.
Sono andata in Rai, ho lavorato come inviata a "Porta a Porta" per un anno. Poi "Studio Aperto" è partito con un'edizione della notte: avevano bisogno di gente, e il direttore Liguori si è ricordato di me. Sono stata assunta con contratto a tempo indeterminato nel '98. Sono a Mediaset da vent'anni. Per dieci anni ho fatto l'inviata per vari programmi, da "Lucignolo" a "Live".
Poi ho deciso che era arrivato il momento di cambiare. E sono passata dall'altra parte della scrivania».
"Il male ero io" è il suo libro, uscito nel 2013, che racconta il protagonista di uno dei delitti che più sconvolse l'opinione pubblica, Pietro Maso, il giovane della "Verona bene"che il 17 aprile del 1991 massacrò i suoi genitori per intascare l'eredità. Com'è avvenuto il suo incontro con Maso?
«Per caso, nell'ottobre 2009. Allora ero responsabile di "Mattino 5", ma Pietro Maso era uscito in semilibertà e il servizio sono andata a farlo io.
L'ho aspettato sotto casa sua per un'ora, quando è arrivato l'ho investito con una raffica di domande. Quel giorno pioveva, lui per tutto il tempo ha guardato dritto davanti a sé e non ha detto una parola. Non dimenticherò mai i suoi occhi. Imploravano pietà».
Perché ha deciso che quella vicenda dovesse essere raccontata in un libro?
«Me l'ha chiesto lui. Avevo conosciuto la sua ex compagna. L'avevo cercata per un'intervista. In quel periodo lei era braccata dai giornalisti. Mi ha pregato di mettere via la telecamera, l'ho fatto e siamo rimaste a parlare per ore. Quando ho conosciuto Pietro lui non si fidava di nessuno, ma voleva raccontare la suastoria. Io volevo che gli altri non lo considerassero solo un "mostro".
Così abbiamo deciso di scrivere un libro insieme. Lo facevamo al sabato pomeriggio, quando lui usciva in semilibertà. Ci sono voluti quattro anni. È stata un'esperienza forte. Sono stata molto criticata per questo, anche dai miei amici. Pietro è uscito definitivamente nel 2013. Purtroppo non ha retto alla vita fuori dal carcere, è caduto nella droga. Ha commesso altri errori. Non lo vedo da due anni. Ma resto convinta di aver fatto la cosa giusta. Abbiamo un dovere sociale, prima che morale, di continuare a seguire queste persone che hanno scontato la loro pena e rientrano nella società».
Ha in progetto di scrivere altri libri?
«Ho raccontato la storia di Pietro perché volevo capire e far capire quanto possa essere banale il male. Oggi vorrei raccontare storie positive.
Far capire quanto sia difficile la strada del bene. E poi mi piacerebbe scrivere un libro che racconti i viaggi che faccio con mio figlio Simeone, che ha diciassette anni».
Lei è autrice, ideatrice e caporedattrice di programmi d'informazione. Quali sono i progetti che la vedranno impegnata prossimamente?
«Sono esattamente dieci anni che faccio la responsabile di programmi tv. Ho iniziato con "Luci gnolo estate", poi sono arrivati "Mattino 5" e "Domenica 5". Eravamo in pochissimi a fare i programmi, si andava in onda tutti i giorni. E anche la domenica. È stato faticosissimo ma molto divertente: eravamo dei pionieri. Un giorno Paolo Del Debbio, che allora conduceva "Mattino 5", mi disse: "Vogliono che facciamo un programma politico in prima serata. Te la senti? Abbiamo due settimane di tempo". Era il 14 agosto. Me lo ricordo come fosse ieri. Quel programma l'ho scritto in una sera. In verità ce l'avevo in testa da un anno: c'era il governo Monti, era esplosa la crisi, volevo che la gente dicesse la sua, dalla piazza, volevo raccontare le storie di chi non ce la faceva più. È nata così "Quinta Colonna". Il 27 agosto del 2012 eravamo in onda. Sono passati sei anni. Abbiamo cambiato il modo di raccontare la politica in Italia.
Oggi posso dire che "Quinta Colonna" ha concluso il suo ciclo. Anche il mio rapporto professionale con Del Debbio si è chiuso.
Ho iniziato una nuova avventura, sto lavorando a "Il terzo indizio" di Siria Magri, con Barbara De Rossi: sono docu-fiction che raccontano storie di violenza, di schegge impazzite che distruggono vite, sentimenti, amori. Stiamo andando in onda la domenica, su Rete 4, in prima serata. Mi piace questo nuovo linguaggio.
E poi da sempre sono appassionata di cibo e salute, mi occupo da anni di alimentazione, ho una rubrica sul settimanale "Visto". Il mio obiettivo è portare in tv un programma che si prenda cura delle persone, attraverso la cosa più semplice che noi facciamo, ossia mangiare».
Spesso è tornata come "ospite" in Ciociaria, nel liceo classico di Sora, dove tra l'altro ha studiato, e al Festival delle Storie della Valle di Comino. Tornerà presto da queste parti?
«Sì, per una cena della mia classe, la terza A. Eravamo tremendi. È stato bellissimo al Festival delle Storie incontrare tanti ragazzi con idee e voglia di fare; così come rientrare nel mio vecchio liceo per raccontare la mia storia. Io adoro i ragazzi. Mi piace stare in mezzo a loro, incoraggiarli. È importante. I ragazzi sono il nostro futuro, la nostra speranza».
Qual è il consiglio che si sente di dare ai giovani di questa terra?
«Io ho avuto una grande fortuna: avere un sogno. A cinque anni, quando si giocava con i miei fratelli, interpretavo sempre la parte della giornalista. A otto anni andavo in giro col registratore a intervistare i vicini di casa. Praticamente un'ossessione. Quando all'esame di maturità, al liceo classico di Sora, dissi che volevo diventare una giornalista, la commissione mi rise in faccia.
Non l'ho mai dimenticato. Per questo non scoraggio mai i ragazzi, non dico mai loro di non farsi illusioni, o che non riusciranno mai e che solo uno su mille ce la fa. No!
Ai giovani ripeto sempre: "Se ci credete veramente, se siete disposti a impegnarvi davvero, fino in fondo, ce la farete tutti. Quindi credeteci, anche quando vi diranno che è impossibile».
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