Cerca

L'intervista

Vittorio Macioce. Quel sogno di bimbo che non svanisce

Il creatore del “Festival delle Storie” si racconta. Legame forte con la sua Valcomino e lo sguardo sul futuro

«Voglio fare il giornalista». Lo diceva sin da ragazzino, sfidando gli sguardi scettici dei compagni. Ha inseguito il suo sogno con quella fermezza valligiana che ha forgiato e consegnato alla storia grandi personaggi, tutti accomunati da una visione, da una forza interiore capace di sfidare la mentalità dei tempi e i pregiudizi. Passione innata, coraggio, determinazione. Tre fattori che nella vita di Vittorio Macioce hanno lasciato il segno. E che continuano a farlo insieme a un amore viscerale mai tradito per la sua terra d’origine, per la sua Alvito, per la sua Valle di Comino. Cinquantasette anni, caporedattore ed editorialista de “Il Giornale”, è tra le firme più prestigiose del giornalismo culturale italiano. Curatore di blog molto seguiti ed apprezzati, si muove con disinvoltura ai confini della professione, nella narrativa e nelle pieghe dell’animo umano.

Tra le sue “creature” più riuscite e longeve c’è il “Festival delle Storie”, che ogni anno richiama in Valcomino autori più o meno noti del panorama letterario nazionale e li mette a confronto con il pubblico. Gli esordi professionali a Radio Radicale, poi il lavoro a Roma, quindi a Milano dove vive attualmente. Sposato con Miriam, insegnante e scrittrice, Vittorio Macioce è convinto che la cultura sia uno strumento formidabile per rilanciare la Valle di Comino sotto ogni profilo. E lo dimostra con il successo del suo festival letterario. Con in primo piano le storie, le vicende umane e il loro racconto. Come quella di “Angelica”, il suo romanzo uscito un paio di anni fa, che ricostruisce in chiave contemporanea ciò che la storia della letteratura non ha detto sulla bella eroina dell’Orlando Furioso. Lo abbiamo intervistato.

Partiamo da questa ultima edizione del “Festival delle Storie”: com’è andata?
«È stata una delle edizioni più belle, in realtà non con tanti grandi nomi, a parte il procuratore Gratteri. Questo, però, a me interessa fino a un certo punto, il festival mi piace quando riesco ad emozionarmi, anche per un appuntamento con due poetesse che raccontano le loro fragilità, per un libro, “I sopravvissuti”, che racconta la storia di un paese del Molise abbandonato, o anche quando si evocano i morti. Il festival è una cosa molto più complessa di quanto appaia. I grandi nomi servono a far conoscere la nostra valle, ma c’è qualcosa di più».

Quanto tempo ci vuole ad allestire il cartellone del festival?
«Tanto tempo. Ma non lo faccio da solo. La cofondatrice Rachele Branca Tisano, di Picinisco, autrice tra l’altro della trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora”, mi aiuta moltissimo. Gratteri, ad esempio, lo ha portato lei».

Che criterio usa per scegliere gli ospiti?
«Un po’ li scegliamo in base alle carte del festival, i tarocchi alchilici anche modificati da cui scaturisce l’argomento della giornata. In base all’argomento scegliamo gli ospiti, anche facendoci consigliare dagli amici e dialogando con le case editrici, collaborando con colleghi come Francesco Repice. E poi qualcuno si propone. Quelli che si propongono sono i più complicati da gestire. Quest’anno abbiamo avuto più di cento ospiti, forse troppi. Tanto che la direzione del festival mi chiede di ridurne il numero».

Quanto costa l’organizzazione del festival e come si finanzia?
«Costa sui 45-50.000 euro. Nessuno di noi, a cominciare da me fino all’ultimo dei volontari, prende un centesimo. I costi sono bassi proprio grazie al lavoro volontario. Le spese che impegnano di più l’organizzazione sono quelle per alberghi, viaggi e pasti degli ospiti. Nessun ospite viene pagato, non ci sono gettoni. Chi viene lo fa per vivere una bella avventura. I soldi per coprire le spese arrivano dalla Banca Popolare del Cassinate, dai fondi per le aree interne della Comunità montana e da altri sponsor».

Il festival è noto anche per rifiutare patrocini da enti e istituzioni. Perché?
«Non vogliamo politici che s’intrufolano, niente passerelle con il festival. È così fin dall’inizio. Non riserviamo posti a nessuno. Chi prima arriva si siede. Il festival nasce per illuminare la Valle di Comino, un regalo mio e di Rachele. Serve per promuoverla attraverso la presenza di influencer. E i risultati sono tangibili. Inoltre, anche per un altro motivo: quando ero ragazzo e dicevo di voler fare il giornalista mi guardavano strano. Negli anni ho capito che all’epoca, negli anni ’80, potevi fare o il mestiere di famiglia o delle professioni classiche tra le quali non figurava quella di giornalista. Oggi tanti ragazzi fanno mestieri che non figurano in quella lista. Compresi tanti che fanno i giornalisti e che si sono ispirati con il nostro festival. È una grande soddisfazione per me poter dare alla Valle un orizzonte, un’opportunità. Dimostrando che certe cose si possono fare».

Il festival le toglie tempo ed energie, che cosa le dà in cambio?
«Il festival è, per così dire, la mia anarchia. È un’agorà dove le persone vengono a raccontare le loro storie. Il festival ara e semina nel territorio, senza avere a che fare con l’economia di mercato. Anzi, rispetto al mercato è la cosa meno razionale che possa esserci, il mio spazio anarchico che custodisco gelosamente nonostante io sia un liberale. Il festival è una scelta di cuore».

Ha già in serbo qualche sorpresa per l’anno prossimo?
«Ancora no. Stiamo cercando di organizzarci meglio. Avremo un comitato che sceglierà gli ospiti e cominceremo a lavorare prima di quanto abbiamo fatto finora. La novità è che dal prossimo anno ci sarà un’organizzazione diversa, io avrò più un ruolo da “padre nobile” che da direttore artistico».

Che rapporti conserva oggi con la sua Alvito, dov’è cresciuto?
«Un legame strettissimo. Quando non sono in paese Alvito mi manca. Qui sto con le persone a cui voglio bene, con gli amici d’infanzia, respiro l’aria che mi fa sentire a casa, vedo le stelle vicine, vado al bar. Stasera, ad esempio, vado a giocare al circolo dove ci sono dei giochi da tavolo. E poi gioco bene a biliardino. Insomma, Alvito è casa mia».

Festival a parte, che cosa fa quando torna in Valcomino e a quale pietanza non rinuncia?
«La cosa che preferisco è il gelato di visciole che fa la gelateria gestita dai miei nipoti. Le visciole sono il mio frutto preferito e il gelato con questo gusto lo fanno in pochissimi in Italia. Ci vado matto. Quest’anno hanno fatto una versione con poco zucchero appositamente per me».

Ha vissuto a Roma, ora a Milano, due grandi città. Si porta dentro qualcosa del paese natio?
«Credo che essere cresciuto in paese mi contraddistingue come anomalia. E le anomalie, in un mondo in cui tutto tende ad essere standardizzato, aiuta il mio spirito. Avito mi ha dato il mio sguardo sul mondo, uno sguardo non omologato».

Come gli altri paesi delle aree interne, Alvito soffre per lo spopolamento. C’è un modo per invertire il trend? La cultura può fare qualcosa?
«Certamente poteva fare molto di più il Pnrr se l’avessero usato per mettere in sesto i borghi dell’Appennino. Soprattutto serve innovazione. Le aziende che guardano alla tecnologia e all’intelligenza artificiale dovrebbero avere una sede ad Alvito e non a Roma. Dipendesse da me, farei una legge per premiare chi apre la propria attività nei borghi. Il fenomeno dello spopolamento è grave in tante aeree interne, per alcuni paesi è mortale. Ma questo significa perdere l’anomalia, quello sguardo non omologato a cui facevo riferimento. Penso che il capitalismo del futuro non debba passare per le metropoli. Oggi è possibile».

I suoi nipoti gestiscono una nota pasticceria. Consiglierebbe loro di trasferirsi in una grande città o di restare in paese?
«Resistano qui finché si può. Tante volte i miei direttori o i miei colleghi mi hanno chiesto di andare in posti chic per fare pubbliche relazioni. Ma portare questa gente a casa tua dà più soddisfazione che andare a cercarli a Capalbio o a Forte dei Marmi».

Giornalista che si occupa di scrittori e scrittore egli stesso. Nel 2021 ha pubblicato “Dice Angelica”. Come ha vissuto questo salto di ruolo?
«La Salani mi ha convinto a scrivere il libro. Mi sono sempre sentito uno scrittore perché per me il giornalismo è letteratura, l’ho sempre pensato, anche quando ho fatto cronaca. Non vedo differenza tra fare il giornalista e fare lo scrittore. Almeno il mio giornalismo è fatto di narrazione. Ho sempre usato la narrazione anche quando avevo le notizie, con i miei reportage, compreso quello sulla Fiat di Cassino. A fare la differenza è proprio il modo di raccontare le cose. Questo è il mio sogno di giornalismo».

Fuori dal web, la scrittura e la lettura hanno ancora un futuro?
«Io dico di sì. Abbiamo vissuto questa metamorfosi del web come fosse un maremoto che ha tracimato sulla carta stampata imponendo un tipo di giornalismo che è un rullo che scorre velocemente, in cui le notizie vengono suonate dallo stesso strumento, mentre un tempo il giornalismo era un’opera d’orchestra. Credo però che ci sia una grande voglia di ritornare a un giornalismo di approfondimento e anche meno banale nella scrittura. Si sta creando un nuovo spazio per la scrittura del passato. Si comincia a sentire l’esigenza di qualcosa di diverso dall’attuale informazione sul web. Questa almeno è la mia speranza».

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione