Spazio satira
L'intervista
17.04.2021 - 08:45
«Uno dei lavori più difficili che abbia mai realizzato è un reportage pubblicato su Internazionale l'11 marzo scorso. Riguarda le violazioni dei diritti umani commesse sistematicamente dalle forze militari e di polizia in Guinea Conakry ai danni di manifestanti, dissidenti e attivisti.
Parliamo di uccisioni, arresti arbitrari, torture e minacce di ogni tipo che restano per lo più impunite, specie dopo l'arrivo al potere dell'attuale presidente Alpha Condé, rieletto lo scorso ottobre per un terzo mandato dopo aver modificato la costituzione. L'uso eccessivo della forza, abuso di potere delle forze dell'ordine e mancanza di giustizia per le loro vittime sono pratiche diffuse nel continente africano. Lo abbiamo visto di recente in Nigeria, Angola e anche nelle scorse settimane nelle proteste in Senegal, durante le quali sono state registrate tra le 5 e le 11 vittime. Il 12 marzo c'è stata una giornata di lutto nazionale».
E' con questa immagine che inizia la storia di Marco Simoncelli, classe 1988, giornalista freelance in Africa. Da anni Marco realizza reportage nei quali racconta, per le più importanti testate nazionali ed internazionali, spaccati della "sua" Africa. L'amore per il continente africano è un'eredità di famiglia che viene da molto lontano: «Mio padre e mia madre, entrambi italiani, lavoravano in Ruanda, dove si sono conosciuti, per la stessa azienda, lei segretaria lui dirigente – racconta – uno dei miei fratelli tuttora lavora in Africa per una compagnia di costruzioni che realizza grandi opere. L'Africa mi scorre nelle vene da sempre, sin dai primi viaggi fatti nel continente quando ero bambino».
Marco è nato e cresciuto in Italia, con la passione per il giornalismo mista a quella per il continente africano.
Dopo gli studi universitari, durante i quali si è specializzato in tematiche africane con tesi di laurea su Mozambico e Repubblica democratica del Congo, il richiamo dell'Africa era sempre più forte. È così che ha deciso di abbandonare il lavoro di redazione per dedicarsi a quel continente che sente suo. Per raccontare dalla prima linea cosa accade in quella terra nella quale si sente a casa: «È solo qui che il mio lavoro mi appassiona davvero e mi fa sentire realmente utile».
Dopo un primo breve periodo in Africa, Marco si trasferisce a Lione per un anno per perfezionare la sua conoscenza della lingua francese, perché interessato all'Africa francofona. Poi torna in Italia per seguire corsi di montaggio: «La vita da freelance, soprattutto in Africa, ti impone di saper fare tutto. Per realizzare un reportage non basta saper raccogliere informazioni e saper scrivere, devi essere un bravo fotografo, realizzare video, occuparti dei montaggi e via dicendo».
E così, dopo aver messo a punto le sue conoscenze e capacità, è tornato in Africa. Ci parla da Dakar, in Senegal, dove si trova da oltre un anno per realizzare approfondimenti sull'Africa occidentale. Dalle crisi umanitarie ai disastri ambientali, dai conflitti alle lotte quotidiane, Marco racconta, insieme al suo team composto da altri giovani con la sua stessa passione, quello che accade in quei Paesi troppo spesso dimenticati.
«È in questi anni sul campo che è nato il team "Kaadar", è in questi territori che ho conosciuto i miei compagni di avventure, in particolare Davide Lemmi e Carlotta Giauna. Insieme abbiamo realizzato reportage e approfondimenti per la stampa italiana e non solo».
Tra gli ultimi, un approfondimento sull'insurrezione jihadista di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, alla quale è seguito il recente e gravissimo attacco dagli "al-Shabaab" mozambicani del gruppo Ahlu Sunnah Wa-Jammá che ha provocato decine di vittime tra i civili. Marco è stato trai primi a occuparsi dell'insurrezione e ad approfondire i problemi di Cabo Delgado: «Nell'ultimo anno si sono intensificati gli attacchi a villaggi e nei confronti della popolazione. Tra le vittime ci sono anche numerosi bambini uccisi davanti alle loro famiglie. Il conflitto ha già causato oltre 2.700 morti (di cui 1.300 civili) e 670.000 sfollati». E ancora, nelle scorse settimane, un reportage realizzato per "La Repubblica" con Davide Lemmi nel quale si raccontano i giorni delle proteste in Senegal e le motivazioni che hanno spinto una parte del Paese nelle strade, attraverso le voci dei giovani del posto.
L'informazione per la libertà
L'impegno di Marco non si limita soltanto al suo lavoro.
Quel giornalista che – come ci confida – ancora si sente troppe volte impotente davanti a quello che gli accade intorno, vuole fare di più. Vuole sentirsi parte di un progetto più grande che possa aiutare i giovani come lui che, però, sono nati e vivono in un posto meno fortunato del mondo. «Io oggi vivo in uno dei Paesi da cui partono tantissimi migranti, il Senegal. Qui tutti hanno il cellulare, tutti hanno una connessione, tutti utilizzano i social e seguono i media occidentali.
Anche chi vive nelle banlieue o in una capanna ha accesso all'immagine stereotipata della vita occidentale. Sogna l'Europa, il benessere ma soprattutto sogna un lavoro. Qui ce n'è poco e la piramide demografica è al contrario rispetto a quella europea, sono quasi tutti giovani. E essere giovani, senza lavoro, in una terra nella quale non vedi quelle opportunità che invece, attraverso uno smartphone, vedi altrove, ti spinge a fare una sola cosa: migrare».
È dalla quotidiana convivenza con queste realtà che nasce "Kaadar" che in lingua wolof significa "struttura", "contesto", "frame". Kaadar è un'organizzazione che offre formazione videogiornalistica ai giovani del territorio. «Crediamo che immagine, storytelling e giornalismo siano strumenti per lo sviluppo di una società indipendente. Crediamo che la libertà di informazione e l'informazione consapevole siano la base di partenza per creare sviluppo – dice con fermezza – Solo con la consapevolezza di ciò che accade realmente intorno a noi si può essere liberi.
Liberi di ribellarsi e liberi di cominciare a costruire un futuro diverso».
Ed è proprio questa la missione di Kaadar, formare e dare l'opportunità a chi non se lo può permettere di acquisire le competenze necessarie a creare contenuti audio-visivi, con l'obiettivo di contribuire allo sviluppo di una società indipendente. Il progetto è rivolto alle periferie e alle zone rurali del west Africa, luoghi dove l'accesso a un'istruzione professionalizzante risulta complicato. Kaadar vuole operare in questi contesti sociali e fornire gli strumenti necessari per leggere e narrare il mondo circostante tramite il linguaggio audio-visivo, in modo indipendente, creativo e reattivo.
«Crediamo che fornire strumenti e competenze professionali permetta una narrazione corale, capace di generare cultura e informazione – spiega – ma anche una cittadinanza partecipe e più consapevole, capace di prendere decisioni meditate e meno soggette ad influenze esterne».
La fame fa più paura del Covid
Nel continente africano la pandemia non si è trasformata in un'ecatombe come i più si aspettavano.
Molti Paesi africani sono stati in grado di far fronte al Coronavirus in modo efficace. Il Senegal è stato addirittura giudicato il secondo Paese al mondo per capacità di contrastare il virus. «Una situazione che – come sottolinea Marco – non è stata determinata da un singolo fattore ma è dovuta ad un'ampia serie di elementi. In primis, mentre l'Italia, tra i primi Paesi occidentali ad essere colpito, è stata colta impreparata, il breve lasso di tempo intercorso tra lo scoppio della pandemia e la prima ondata africana ha lasciato alla maggior parte dei governi il tempo di prendere le giuste precauzioni.
C'è poi da considerare la piramide demografica africana – prosegue – In Africa, nonostante l'elevata variabilità, l'età media è molto bassa e nell'Africa Subsahariana circa il 40% della popolazione ha meno di 15 anni e soltanto il 5% più di 60. Questo potrebbe aver aumentato i casi di positivi asintomatici e i casi con sintomi meno violenti. Bisogna considerare anche il sistema immunitario più forte e lo stile di vita diverso, visto che in tutte le realtà rurali la vita si svolge praticamente all'aperto, nei campi o al mercato.
Non si sta quasi mai in ambienti chiusi».
C'è poi anche un altro aspetto da considerare e riguarda la difficoltà di monitoraggio della diffusione del virus: «Il continente africano ha grossi problemi nella raccolta dati – evidenzia Marco – Noi non abbiamo dati certi sin dall'inizio della pandemia. Ci sono sistemi sanitari che non hanno la stessa capacità di monitoraggio di altri Paesi. È quindi probabile che i numeri reali siano superiori a quelli dichiarati».
Marco vive la gestione della pandemia in Africa da "cittadino" e da giornalista. Ha narrato in numerosi reportage quello che accade. In uno degli ultimi, sul mensile Nigrizia, ha raccontato, insieme al suo "compagno di avventure" – come ama definire Davide Lemmi – la storia del dottor Dimai Ouo Kpamy che in Guinea è in prima linea nella lotta al Covid-19, dopo aver combattuto l'Ebola. «È il responsabile di 38 unità di quarantena e trattamento Covid sparse sul territorio –dice Marco – e ha messo in piedi una macchina già rodata con l'epidemia di febbre emorragica Ebola che ha colpito l'Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. In Africa i medici hanno combattuto altre epidemie, molti sono stati preparati dall'Oms e, nonostante i mezzi esigui, non si sono fatti trovare impreparati dal Covid-19».
Ora l'Africa, come il resto del mondo, è di fronte alla sfida dei vaccini. Ma il rischio è che questo continente venga lasciato tra gli ultimi. Per ora, nella stragrande maggioranza dei territori, i vaccini non sono ancora arrivati: «Qui in Senegal –precisa – arrivano pochissimi vaccini e sono tutti destinati a cliniche private per pochi "eletti", per quei pochi che possono permetterselo».
Quello che però Marco ci tiene ancor più a precisare è che più del Covid-19, in gran parte dei Paesi africani, si temono la fame e la mancanza di lavoro: «La paura di essere messi in quarantena insieme alla famiglia, una volta risultati positivi al virus, ha fatto sì che molte persone con sintomi non si siano fatte curare per paura di non poter lavorare. Qui non ci sono aiuti di Stato.
Qui la lotta al Covid non è la priorità. La malaria, ad esempio, uccide più del Coronavirus, almeno stando ai dati che abbiamo. Quello che si teme di più è la catastrofe economica. Quando paralizzi un Paese già povero anche per poco è la fine».
Insomma, il Covid, in questa parte del mondo, è solo una delle tante emergenze da dover raccontare. Marco, insieme ai tanti freelance che come lui hanno seguito il richiamo dell'Africa, continua a farlo con instancabile passione, nonostante i rischi, nonostante i compensi economici che spesso non coprono neppure la metà dei costi di realizzazione di un reportage. Non solo perché qui il suo lavoro lo fa sentire realmente utile ma anche perché vorrebbe che, attraverso le sue storie, arrivasse un'immagine più vera dell'Africa: «Mi piacerebbe che in Occidente arrivasse un'immagine meno stereotipata dell'Africa. Vorrei che non venisse vista come povertà, caldo, malattie e fame. È per questo che ogni giorno cerchiamo di raccontarla attraverso le parole e gli occhi di chi vive in questa parte del mondo.
Qui ci sono tanti giovani che studiano, che vanno all'università, diventano medici, ingegneri, realizzano startup e tanto altro. C'è un intero continente che sta emergendo e noi non possiamo stare a guardare. Bisogna creare sviluppo ma soprattutto uno sviluppo sostenibile, altrimenti ne pagheremo il prezzo quando questa popolazione aumenterà e avrà maggiori disponibilità economiche. Ci sono tematiche che ci riguardano molto più da vicino di quanto si possa pensare ma l'Occidente pensa ancora che tutto quello che accade qui sia solo "roba da Terzo mondo"».
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