L'intervista
16.12.2025 - 11:09
Ugo Tarquini
Brilla nel cielo della lirica la stella di Ugo Tarquini, tenore nato ad Alatri 44 anni fa. Interprete apprezzato in Italia e all’estero, torna quando può nella sua città natale, alla quale è molto legato. Abbiamo avuto il privilegio d’incontrarlo proprio ad Alatri, alla vigilia della partenza per la Corea, dove si esibirà nei prossimi giorni. La prima domanda è d’obbligo.
Quando hai cominciato a pensare di poter diventare un cantante lirico?
Il talento è un elemento imprescindibile?
«Sì, quello è la base. Però possedere uno specifico talento può fornirti il 30% di quel che occorre. Il restante 70 lo fanno la ricerca, l’applicazione e lo studio».
La tua passione per la musica è però nel dna, visto che in famiglia è piuttosto diffusa?
«Certamente. Sono nato e cresciuto in una famiglia musicale. Ad introdurmi al mondo del canto, quando avevo solo 8 anni, è stato mio padre, che era direttore di coro. Benché svolgesse un altro lavoro quale occupazione principale, ha studiato al conservatorio composizione e direzione corale ed è stato lui il mio primo maestro. Altra figura importante è quella di mia sorella Cristina, con la quale ho studiato pianoforte. Io ascoltavo le sue esibizioni al piano, quando suonava brani di Mozart e Chopin e Schumann ed è stata fondamentale nel mio percorso di crescita».
Poi arrivano il conservatorio e la specializzazione ulteriore?
«Ho iniziato a frequentare il conservatorio a 21 anni, non prestissimo. Nel frattempo ho conseguito la laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, perché anche quella materia era per me fascinosa ed intrigante, ma al momento di prendere una decisione ho realizzato che un futuro senza la musica per me non sarebbe stato possibile».
Sei allora un musicista rigoroso, come la matematica impone, con le sue ferre regole?
«Preferisco dire che ho applicato un criterio umanistico allo studio di una scienza esatta e non già regole rigide allo studio della musica».
Prima di specializzarti avevi già studiato respirazione. Ci spieghi cosa significa in concreto?
«Un elemento basilare del cantante lirico è la corretta respirazione. Per semplificare posso dirti che i neonati quando emettono i vagiti lo fanno sfruttando il diaframma, che è il modo corretto di respirare. Da adulti la respirazione tende a spostarsi alla gola, ma chi deve cantare deve tornare... all’origine».
Ricordi la tua prima volta come spettatore?
«Certamente. Avevo 20 anni e al San Carlo di Napoli rappresentavano “Le nozze di Figaro”, con la regia di Mario Martone. Quello spettacolo mi incantò letteralmente. Quindici anni dopo, quando quella produzione è stata riproposta, io ne sono stato protagonista prima presso i Teatri del circuito Lombardo e poi al Teatro Regio di Parma. Un sogno realizzato».
Voce come strumento di lavoro significa terrore per ogni tipo d’inconveniente che possa limitarne le potenzialità, specie alla vigilia di spettacoli?
«Sono un cantante fortunato in questo senso, perché non ho particolari amuleti e non mi faccio assalire da paure più o meno fondate. Il grande rischio è che si viva per cantare e non si canti per vivere. Io mi sono imposto di non costruirmi prigioni ed ossessioni, regalo a me stesso una certa libertà».
Voi siete al tempo stesso cantanti ed attori. È importante calarsi nel personaggio o è prioritaria la ricerca della perfezione canora?
«Prima di tutto l’opera lirica è teatro. Il nostro è un recitar cantando e pertanto l’aspetto attoriale riflette le dinamiche di quello canoro. Io ho fatto anche teatro di prosa e pertanto il mio attuale lavoro mi consente di coniugare due grandi passioni: il teatro e la musica. Di regola c’è prima un lavoro tecnico sul canto e poi si cura l’aspetto drammaturgico del lavoro letterario».
Il vostro è un lavoro ancorato a spartiti e trame preesistenti ma può diventare molto creativo. In che misura?
«La creatività di un artista consiste nel far subentrare le proprie caratteristiche in termini di capacità vocali ed espressive nel contesto di un’opera già determinata».
Qual è, tra i tanti importanti ruoli interpretati, il personaggio a te più caro?
«Nel momento in cui si affronta una produzione è molto frequente affezionarsi al personaggio. Tra i tanti però io ho una predilezione assoluta per Mario Cavaradossi, che nell’opera Tosca si sacrifica per l’amore e per gli ideali. Con Puccini poi ho intessuto un rapporto speciale fin dai tempi della mia formazione a Torre del Lago, all’Accademia del festival pucciniano, dove ho avuto modo di interagire con grandissimi cantanti, veri e propri idoli giovanili».
Cosa si prova nel diventare colleghi di personaggi così importanti?
«Sono emozioni forti ed inaspettate, perché hai modo di vedere questi artisti di fama mondiale nei loro aspetti più umani. Puoi percepire l’aspetto più profondo di questo lavoro, con l’elemento umano e le fragilità che esso comporta».
Persino i grandi artisti sono fragili?
«Per fare questo lavoro la fragilità è necessaria, perché diventa la molla che porta a rimettersi in gioco quotidianamente. Non bisogna ovviamente lasciarsi trasportare dalla fragilità, ma utilizzarla come una risorsa, uno sprone al miglioramento continuo».
Il tuo autore preferito ci sembra di averlo individuato in Puccini...
«Sì, Giacomo Puccini è l’autore che mi regala le emozioni più intense. Ho invece avuto bisogno di un processo molto più lungo di adattamento per apprezzare Verdi, ma anche lui è immenso. Puccini è dirompente, puoi paragonarlo all’amore passionale, quello che si prova per una donna. Invece Verdi mi ricorda l’amore materno, quello protettivo, rassicurante».
Ormai sei un artista di fama, ma qual è il complimento più bello che tu abbia ricevuto, quello che ha un posto speciale nel tuo cuore?
«Mentre facevo la Boheme con Ettore Scola, nell’ambito del festival pucciniano, una grandissima interprete della Madama Butterfly, dopo avermi ascoltato mi disse di essersi rassicurata: “Ora che ho sentito la tua esibizione ho capito che qui si può cantar bene”. Immaginate il mio orgoglio, tenendo conto che ero ancora piuttosto giovane, nel sentire questo apprezzamento da una stella della lirica».
Il canto e la musica sono popolari per definizione ma la lirica tende ad essere considerata di nicchia. Lo stereotipo è che ad una prima siano seduti in galleria aristocratici, intellettuali e miliardari stravaganti. È ancora così?
«No, è una concezione ampiamente superata. Il pubblico dell’opera lirica non è quello di nicchia, ma è composto da tutte le persone che hanno la possibilità di fruirne. È importante creare i presupposti, una tradizione, un polo culturale recettivo. Poi l’opera piace a tutti. Io sono dell’avviso che l’opera lirica non piaccia solo a chi non la conosce. L’opera esprime concetti moderni e intramontabili: l’amore, la passione e la morte, del resto, non hanno connotazioni temporali o spaziali».
Da anni stai girando il mondo con produzioni di successo. Quando vai in luoghi lontani, hai tempo e modo di carpirne bellezze architettoniche, tradizioni, costumi eccetera?
«Io sono molto curioso e mi piacerebbe tanto potermi dedicare al turismo, ma quando si va in certi luoghi per lavoro l’attenzione è tutta sulla produzione in atto. Però attraverso l’ospitalità che ti offrono si scoprono tanti piccoli segreti, tanti modi di vivere la socialità. Ed è bello vedere quanto la musica unisca ed affratelli».
Stai per andare in Corea, in Oriente, dove la musica lirica è molto apprezzata...
«Ormai mi manca soltanto l’Australia, negli altri 4 continenti sono stato di frequente. A breve andrò negli Stati Uniti, in Florida e in California, e poi in Sudamerica. Devo dirti però che l’accoglienza che riceviamo in Cina e in Corea è davvero speciale. Lì c’è un processo d’identificazione tra Italia e musica lirica, le opere liriche sono considerate un carattere distintivo dell’Italia, sono studiate e apprezzate da tanti giovani e giovanissimi».
Ora che la lirica è anche patrimonio dell’Unesco siete ancor più ambasciatori della cultura italiana?
«È un grande onore per noi e anche una responsabilità, un compito che dobbiamo onorare al meglio».
Sappiamo che hai per Alatri un grande amore, anche se ora vivi a Taranto, quando non sei in giro per il mondo. Quali sono i tuoi ricordi e cosa auspichi per Alatri?
«Ricordi ne ho tantissimi. C’è la mia vita, e ogni volta che torno avverto, quasi avessero una loro fisicità, quei valori genuini e autentici che sono rassicuranti e hanno un effetto benefico su di me. Conservare ed esaltare l’autenticità di Alatri è quello che in prospettiva mi pare l’augurio più bello. Spero che Alatri possa crescere ulteriormente e trasmettere al mondo il suo bagaglio di bellezza e di cultura».
A Taranto ti trovi bene?
«Sì, è la città di mia moglie, che è anche lei una musicista ma ha deciso di suonare solo per sé e lavora nell’ambito amministrativo del conservatorio. La cosa curiosa è che benché io ami molto il mare, ora che vivo in una città di mare mi capita di andarci solo di rado. Sembra un paradosso, forse lo è, ma la vita disegna strani percorsi e non ho il tempo di dedicarmi a tutto ciò che mi piace. Devo dire più in generale che chi vive in Italia, visto l’eccesso di bellezza che la connota, a volte tende poco opportunamente a darla per scontato».
Sei super-impegnato con il lavoro, ma uno spazio per lo sport, almeno da sportivo in poltrona, riesci a lasciarlo?
«Mi piace tenermi in allenamento perché per il mio lavoro avere una buona forma fisica non è un elemento trascurabile. Da giovanissimo praticavo il volley, a livelli agonistici ma non elevati. Il mio accostarmi allo sport come spettatore comprende invece due passioni: la prima è la Roma, squadra della quale sono tifoso nemmeno così tiepido. La seguo nella gioia e nella delusione, rispettando il paradigma del buon tifoso. In questo momento poi ho una grande passione per il tennis e credo che questo sia comune a tanti, visti i risultati che i nostri alfieri e Sinner più di ogni altro stanno ottenendo. Devo dirti che mi ha fatto particolarmente piacere la Davis vinta senza il nostro atleta più rappresentativo, perché sta a significare che il movimento è cresciuto in modo esponenziale e che siamo davvero una potenza in questo sport».
Ugo Tarquini è un uomo di spessore culturale non comune. Con lui potremmo parlare ancora di fisica quantistica, di filosofia, di cinema, teatro e tanto altro ancora, ma i limiti di spazio c’impongono di chiudere qui questa bella chiacchierata. Cordiale, dotato di un garbo non comune, Ugo Tarquini ha conservato un’umiltà di fondo, nonostante i successi ottenuti in tutto il mondo. Da quando nel 2013 venne selezionato per interpretare Erik nell’Olandese volante di Wagner e poi scritturato per la stagione operistica presso il teatro Sociale di Como la sua crescita professionale è stata dirompente.
Oggi le sue interpretazioni di Pinkerton, Rodolfo, Don Josè o Turiddu sono sempre impeccabili e straordinariamente intense. È un figlio illustre della Ciociaria, capace di eccellere in un ambito, quello lirico, in cui gli italiani sono davvero insuperabili. Consentiteci di esserne orgogliosi.