Spazio satira
Papa Francesco e la Ciociaria
23.04.2025 - 13:00
Uno dei vari momenti di incontro tra il vescovo Gerardo Antonazzo e papa Bergoglio
Un’udienza privata, una delle ultime: sei giorni dopo papa Bergoglio sarebbe stato ricoverato. Mente lucida e brillante, corpo già attraversato dalla sofferenza.
Lo racconta il vescovo della diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, Gerardo Antonazzo, uno degli ultimi che ha avuto l’opportunità di interloquire con il Santo Padre a Santa Marta nel suo salotto personale prima che varcasse le soglie del Gemelli.
A unirli anche le date, la morte del Pontefice il 21 aprile e l’inizio del ministero, sempre di Antonazzo, il 21 aprile di 12 anni prima. Un altro punto di congiungimento.
E poi ancora l’avvio del suo mandato tra due papi. «Sono stato eletto vescovo il 22 gennaio 2013 da papa Benedetto XVI, il 9 febbraio 2013 la convocazione dei vescovi del Lazio che concludono la visita ad limina con l’incontro finale con il Papa, l’11 febbraio la rinuncia al ministero del pontefice, il conclave, l’elezione di papa Bergoglio nel mese di marzo e nel mese di aprile vengo consacrato vescovo sotto il suo papato».
E quell’ultimo incontro a Santa Marta l’8 febbraio?
«Quando venni ammesso nel suo salottino, mi ha fatto accomodare e in modo molto commovente mi ha chiesto scusa perché non aveva la talare. Era in condizioni di sofferenza avanzata, anticipò addirittura l’udienza dalle 8.30 alle 8.
Fu un incontro cordiale e paterno, era disponibile, accogliente, lucido e presente ma molto provato. È stata una delle ultime udienze private».
I lunghi giorni di ricovero e le dimissioni con «tutte le uscite con cui ha sorpreso il mondo in queste ultime settimane» fino alla benedizione pasquale. Gli occhi di tutti sembrano ancora rivolti verso l’alto a fissarlo. «Io mi domandavo come mai insistesse tanto nel voler essere presente in mezzo alla gente - argomenta il vescovo Antonazzo - la mia impressione è che in quello stato di profonda sofferenza il papa sentisse il cedimento delle sue forze e volesse stare vicino alla gente, una volontà di distacco che cominciava a vivere sentendo questo declino delle sue energie mentre a livello mentale è rimasto sempre molto lucido».
Poi la morte sopraggiunta il giorno del lunedì dell’Angelo.
«Il giorno centrale della Pasqua lo ha vissuto in pienezza, dopo di che si è consegnato nelle mani di Dio. Questo conferma un pensiero che, ogni tanto, richiamava quando diceva: “Bisogna farsi cogliere dalla morte vivi”, cioè consapevoli, a occhi aperti, abbracciare questa morte; lui veramente l’ha vissuta così, nella piena consapevolezza di consegnarsi al Signore. Questo è molto edificante.
Una volta andai a trovare un vescovo gravemente ammalato e mi disse: io aspetto la morte ma voglio morire di giorno quando sono sveglio e il papa ha vissuto proprio così, la morte lo ha colto vivo, nella consapevolezza di un abbandono fiducioso, totale».
Un pontificato difficile da racchiudere in poche parole ma ci sono elementi salienti che spiccano.
«Le grandi voci che lo hanno accompagnato e che hanno segnato il nostro cammino sono: pastore di una chiesa povera ma in uscita da se stessa, prima di tutto da se stessa e poi verso gli altri. Intendeva uscire dalla propria mondanità spirituale, dalla autorenzialità, uscire dal proprio clericalismo, uscire dalla maschilizzazione della chiesa, aveva usato questo termine “smaschilizzare la chiesa”. Ma anche questa apertura e accoglienza incondizionata a tutti, ognuno può far parte della comunità senza discriminazioni, una chiesa madre, l’immagine di “ospedale da campo” dove ognuno può essere accolto, assistito, curato, amato, perdonato.
La seconda categoria che lui ha molto utilizzato e vissuto è quella del dialogo con tutte le fedi religiose, sicuramente già avviato da altri pontefici ma lui lo ha spinto molto in avanti. Dialogo che significa condivisione dei punti comuni come pace, fraternità, ambiente.
Poi la categoria della custodia della dignità umana, di tutti, di chiunque, soprattutto dei più indifesi, dei poveri, degli immigrati, la miseria, la fame, quella dignità umana violentata dalla cultura dello scarto.
E l’ultima è la categoria che chiamerei servizio della fraternità non solo umana ma anche cosmica, la grande visione che coltivava era quella dell’uomo amico della natura, del cosmo, una fraternità tra l’uomo e il suo mondo, giustizia nelle relazioni umane ma giustizia anche nel rapporto dell’uomo con la natura, invece di essere predatori egoisti. Invitava a essere servitori della natura e non di asservire la natura al proprio sfruttamento, servire ma non asservire la natura».
«Direi che più che sfondare porte aperte lui ha sfondato porte chiuse, ha aperto dei processi che altri concluderanno.
Ha aperto prospettive enormi, gigantesche, delicatissime su cui la chiesa non può più tacere o sottrarsi».
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