L'intervista
28.12.2025 - 11:00
Troppo complessi per essere un gioco e troppo semplici per essere un’arte. Parliamo degli scacchi, che forse potremmo definire una “disciplina”, giacché anche sport non appare precipuo. Del fascino degli scacchi e delle loro dinamiche discutiamo con un super esperto, abilissimo giocatore, collezionista e conoscitore profondo. È Claudio Calabrese, consulente finanziario, “candidato maestro” di scacchi, che da giovanissimo scoprì il feeling con i 32 pezzi sulle 64 “case”.
Bobby Fischer divenne un eroe nazionale e sappiamo che occupa da sempre un posto speciale nel tuo cuore. Giusto?
«Fin da allora, parliamo del 1972, data di quella mitica sfida a Reykjavik, mi colpì come un singolo potesse confrontarsi con una vera e propria scuola, della quale Spasski rappresentava la più evoluta espressione. Fischer invece era un cane sciolto, negli Stati Uniti non c’era una scuola che potesse reggere il confronto con quella sovietica, ma lui era un genio e vinse quella partita, sorprendendo il mondo».
Di lui si diceva fosse parecchio stravagante…
«Tutti i geni hanno certamente qualche singolarità che li distingue dalla massa e Fischer può essere sicuramente annoverato nella categoria. Riuscì a rifiutare la pubblicità a un latte, all’apogeo della sua popolarità, solo perché quel latte non gli piaceva. Non è proprio un comportamento comune. Pare fosse persino affetto da sindrome di Asperger ma come giocatore di scacchi è stato straordinario, tanto che ancora risulta presente nelle classifiche ELO».
Ci fu anche un episodio molto particolare durante quella sfida in Islanda...
«Sì, le mosse di Fischer erano talmente geniali ed imprevedibili che alla sesta partita Spasski si alzò in piedi e lo applaudì. Considerate che era ancora un’epoca in cui l’estro giocava un ruolo determinante. Oggi molto è cambiato. Anche per le fragilità e le problematiche che possono insorgere in dipendenza di “una vita con gli scacchi” la medicina è subentrata ed ha molto aiutato in termini di stabilità e di controllo».
Parliamo della tua esperienza da giocatore, perché anche in quella veste non eri proprio uno qualunque…
«Qualche soddisfazione sicuramente me la sono presa. Dal punto di vista prettamente agonistico probabilmente il mio exploit più significativo resta quello dell’Open di Mendrisio nel 1986, un torneo molto prestigioso, che chiusi al quindicesimo posto su 128 partecipanti. Per dare un’idea del tipo di competizione, basti pensare che a vincere fu Host, allora candidato al titolo mondiale».
E peraltro a quell’exploit è legata anche una piccola recriminazione?
«Sì. A torneo concluso incontrai il maestro ad honorem Enrico Paoli, grande esperto e scrittore di libri sulla materia, e lui mi fece notare come avessi mancato alcune occasioni ghiotte per ottenere un risultato ancor più prestigioso».
Hai ottenuto però anche altri risultati prestigiosi?
«Le altre perle della mia carriera agonistica sono Spoleto e Ischia. In entrambi i casi conclusi sul podio, e si trattava di manifestazioni importanti a partecipazione internazionale. Devo dire però che vado particolarmente fiero del mio rendimento ai campionati provinciali: in dieci anni di partecipazioni ho disputato 78 partite e ne ho persa una sola, ovviamente al netto di alcune gare finite in parità. Per tre volte ho vinto il titolo provinciale, sfiorando almeno altre 4 vittorie. Se poi allarghiamo la statistica anche ai sociali e all’Open Città di Alatri ho complessivamente giocato 194 partite, con 108 vittorie, 79 pareggi e 5 sconfitte».
Della tua attività parli anche in un libro autobiografico...
«Ho raccontato le mie più significative esperienze agonistiche negli scacchi e i miei due anni vissuti a Pordenone in un libro cui sono molto affezionato perché tratteggia tra l’altro la figura di mio padre, al quale ero legatissimo».
Se avessi avuto la possibilità di dedicarti totalmente agli scacchi dove saresti arrivato?
«Difficile dirlo, perché si entra nel campo del possibile o anche del probabile ma non v’è certezza. La sola cosa evidente è che avrei fatto ancora meglio. Quanto non sta a me dirlo. Di certo posso dire che nell’anno in cui ad allenarmi c’era Stefano Tatai, pluricampione italiano, i miei progressi furono esponenziali».
Tra i tuoi successi ce n’è uno di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sì, risale al 2012. Giocavo le fasi eliminatorie della Coppa del Mondo per corrispondenza e in una partita contro un maestro polacco una mia mossa, definibile quale novità teorica, finì ne “L’Informatore Scacchistico”, un’autentica bibbia della disciplina. Nel numero successivo la mia mossa fu inserita tra le 10 novità teoriche più importanti dell’anno. Il mio nome finì accanto a quelli di celebrati e straordinari maestri. Faticavo a crederlo, ma davvero quella fu un’incursione, sorprendente e bellissima, nel gotha di questo gioco».
Quanta affinità e quante analogie esistono tra una partita a scacchi e l’esistenza nella sua globalità?
«Ce ne sono tante, la vita è una partita a scacchi con il destino, giocata attraverso la nostra sensibilità, le nostre capacità e le nostre debolezze».
In cosa la pratica scacchistica può aiutare nella quotidianità?
«Può aiutare in modo consistente nel vedere le cose più in profondità, e non solo in apparenza. Manca spesso, in questa società un po’ superficiale, la capacità di approfondire, di entrare nel dettaglio. Tutti parlano di tutto, anche di argomenti in merito ai quali sono eruditi in modo superficiale. Gli scacchi possono essere un antidoto all’approssimazione».
Oggi l’intelligenza artificiale può un po’ svilire la creatività e in qualche modo sostituirla?
«Il pericolo è latente, ma allo stato attuale ritengo che i grandi maestri possano ancora vincere le partite contro l’IA. Al programma manca il colpo d’occhio, manca l’estro. Per ora le gerarchie sono ancora queste, e non dimentichiamo che comunque sono sempre gli esseri umani a inserire i dati. In una società futura e distopica non so, preferisco non pensarci...».
Oltre che valente giocatore, sei un collezionista molto importante di tutto ciò che attiene al mondo degli scacchi...
«Se fino a qualche anno fa mi ritenevo più un giocatore, ora l’aspetto del collezionista è diventato quello preminente».
Sappiamo che nella tua personale biblioteca hai volumi antichissimi...
«Sì, coltivo questo hobby da molti anni e le mie ricerche sono state fruttuose. Posso dire con un pizzico di orgoglio di essere un collezionista di buon livello. Ho 2.500 volumi e circa 700 sono decisamente datati».
Custodisci gelosamente anche una cartolina della famosa sfida di Reykjavik con firme originali dei due grandi contendenti?
«Sì, ho anche questo importante documento, del quale è stata ufficialmente riconosciuta l’originalità. Un “pezzo” pregiato, ma devo dirvi che non è il solo. Per me gli scacchi sono una passione autentica e come tale la vivo in ogni suo frammento».
Ma per essere un buon giocatore di scacchi basta essere una persona intelligente ed intuitiva?
«No, non basta. Al di là di un elevato quoziente intellettivo, che come in ogni altro campo acquisisce certamente una sua valenza, bisogna possedere determinate qualità. A mio modo di vedere la principale virtù di un giocatore di scacchi deve essere la freddezza, intesa come capacità di tenere a bada l’emotività».
Per questo i russi erano e sono ancora tra i più apprezzati protagonisti?
«Esatto. Il nostro temperamento latino e passionale in qualche misura bisticcia con l’identikit ideale dello scacchista perfetto».
Puoi farci un esempio pratico?
«Certamente. Vi basti pensare che nella gara migliore della mia vita, quella dell’Open di Mendrisio, di cui ho già parlato, io impiegai tre partite per calarmi nella condizione di concentrazione ideale. Nelle prime due la mia attenzione era in qualche misura rivolta alla location, a ciò che mi circondava e non riuscivo ad introdurmi in quella ideale campana di vetro che deve ospitare il giocatore durante le partite. I maestri invece partirono subito con la concentrazione ottimale».
In cosa consiste per te il fascino degli scacchi?
«Mi piace l’idea che non esista una soluzione, ma che ci siano invece tanti modi di cercare il meglio. In questo l’accostamento alla vita è evidente: nessuno possiede la pietra filosofale, ma tutti lottiamo ogni giorno per migliorarci e per cercare soluzioni ai problemi che la vita ci presenta».
Sappiamo che hai praticato anche altri sport a livello agonistico. Ci dici quali?
«Un’altra mia passione sono i motori e ho frequentato scuole di pilotaggio e preso parte a gare a cronometro. Da giovane, come tanti altri connazionali, ho giocato anche al calcio. Ero un portiere di discreto livello, ma poi dopo la trafila nel settore giovanile ho preso altre strade».
Sei un tifoso juventino, nemmeno tiepido...
«La Vecchia Signora mi ha rapito fin da bambino, ai tempi di Bettega e Anastasi. E in amore non si cambia, anche se adesso ammiro il Frosinone e il suo percorso virtuoso e sorprendente nel calcio che conta».
Cosa pensi del boom del tennis in Italia?
«Ho praticato il tennis a livello non agonistico, ma l’ho sempre seguito con grande passione. Ora che abbiamo un giocatore capace di stare per 60 settimane al comando del ranking ATP è ancora più piacevole seguire i grandi eventi. Dietro Sinner sta venendo fuori un movimento di primissimo piano. Credo si debba esserne orgogliosi».
Tra i tuoi hobby c’è anche la musica?
«Mi piacerebbe tanto saper suonare qualche strumento, ma in questo caso sono... attore non protagonista, o per meglio dire appassionato ascoltatore. Ascolto un po’ di tutto, dalla musica classica a quella leggera, però le mie preferenze sono per i gruppi rock degli anni 80 e 90. Mi piacciono i Led Zeppelin, i Pink Floyd e i Genesis, dei quali conservo vinili e musicassette».
Scacchi come filosofia di vita, vecchi volumi e una curiosità insaziabile. Claudio Calabrese, 64 “case” per un solo grande sogno.
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