Cerca

L'intervista

Tommaso Di Brango. Elogio dell’incompiutezza

A colloquio con l’insegnante, il critico letterario e lo scrittore aquinate

Tommaso Di Brango. Elogio dell’incompiutezza

Insegnante, scrittore, critico letterario, uomo d’ingegno: le definizioni a Tommaso Di Brango, quarantenne aquinate, non piacciono troppo, perché l’incompiutezza è persino nel titolo del suo primo lavoro dato alle stampe e perché definire, a volte, porta a cogliere solo frammenti di una realtà più composita. Però è opportuno che i lettori inquadrino il personaggio, occhi magnetici e voce baritonale, uso a districarsi tra i viali fioriti della cultura con curiosità intonsa e capacità critiche di tutta evidenza.


La sua passione per gli studi umanistici è scritta nel dna, perché suo padre, Donato, era un professore illuminato… 

«Mio padre è stato senza dubbio una figura centrale della mia formazione umana e culturale: lui mi ha trasmesso la passione onnivora per la letteratura, ma con lui mi sono accostato anche alla politica, alla musica, al calcio e a tante altre realtà della vita. Ricordo dei pomeriggi di fine anni 90 a Frosinone, in via Mastruccia: mia madre, anche lei insegnante, aveva spesso riunioni pomeridiane a scuola e noi l’aspettavamo discorrendo di tutto. È stato per me un maestro e un interlocutore gradevolissimo: penso che sia stato lì che sono maturate alcune scelte decisive per la mia vita futura».

Cominciamo dal Tommaso studente: quale argomento carpì la sua immaginazione in modo particolare?

«Sinceramente fatico a citarne uno, perché la scuola allora non mi piaceva e di conseguenza non mi accostavo ai vari argomenti con particolare entusiasmo. Facendo un piccolo sforzo, però, potrei fare il nome di Tersite, il più brutto tra i guerrieri greci partiti alla volta di Troia. Fu picchiato da Ulisse perché alimentava dubbi nei suoi compagni d’avventura e li incitava ad abbandonare la guerra e tornare a casa. In sostanza fu picchiato per aver detto che non era il caso di farsi ammazzare in nome di Agamennone. Nella prospettiva omerica, un guerriero così era la negazione di ogni forma di virtù ed eroismo. Uno studioso importante come Concetto Marchesi, in epoche più recenti, ha però fatto un’osservazione analoga alla mia e questo mi conforta. Rivalutiamo Tersite».

Mentre era dall’altra parte, sui banchi, ti immaginavi un giorno seduto alla cattedra o sognavi di fare altro?

«Sì, forse semplicemente per spirito di emulazione paterna, ma la risposta è sì, sebbene da ragazzo immaginassi di diventare un docente universitario. Poi però la vita prende il suo “strano corso” (per dirla con Ariosto), ed eccomi qui».

L’insegnante oggi, oltre alle nozioni scolastiche, cosa può trasmettere in concreto agli alunni, in quest’era di esagerata digitalizzazione, in cui i rapporti umani sono trasformati se non dismessi?

«Cosa può trasmettere ai propri allievi un insegnante, oltre alle nozioni? Mi viene in mente Hegel, che ai suoi studenti diceva “Io sono la filosofia”. Un’affermazione che nell’immediato può senza dubbio apparire megalomane, ma che nella sostanza è corretta. Se insegnare fosse semplicemente un trasmettere oggi cose dette da qualcuno duecento anni fa sarebbe una cosa piuttosto sterile e priva di interesse. Io invece – diceva Hegel – ed io mi sento di condividerne il pensiero, vi faccio vedere il modo in cui sono stato trasformato dal pensiero di chi mi ha preceduto. Insomma: vi mostro – o, perlomeno, provo a mostrarvi – in che modo il pensiero mi ha cambiato la vita. È un’esperienza vissuta della cultura quella che intendo proporre ai miei studenti. Naturalmente non sono sicuro di riuscirci, ma provarci è già tanto».

È un grande estimatore del sommo poeta. È ancora attuale il messaggio di Dante e se sì in che misura e in che ambito?

«L’attualità di Dante si può riscontrare in molte cose. Una a me particolarmente cara sta nella conclusione della “Vita nuova”. Lì il buon Alighieri dice che non scriverà più nulla per Beatrice fin quando non avrà trovato le parole giuste per farlo: parole degne di lei. Sta dicendo che le parole non sono un bene fungibile, utilizzabile per tipizzare una situazione. Sono lo strumento, debole e contraddittorio quanto si vuole, ma comunque imprescindibile, attraverso cui esprimiamo noi stessi. Per questo è importante non parlare a vanvera. Poi, certo, il suo era un discorso da poeta – cioè: da uomo che quasi letteralmente vive di parole – ma in fin dei conti può valere per tutti noi».

Beatrice simbolo di salvezza e figura centrale della “Commedia”, le “tre donne benedette che curan di te nella corte del ciel ”: possiamo ravvisare in questo un messaggio “progressista”, se non femminista, di Dante?

«Direi di no. Quando Dante pensa alla donna, non si interroga sulla sua possibile emancipazione civile, sociale o politica. Dal suo punto di vista, cose del genere sono addirittura troppo poco. Per lui, piuttosto, Beatrice è un segno della presenza di Dio nella sua vita: è una figura dallo spessore addirittura teologico. Ma poi, più in generale, anche prescindendo dal discorso sulla donna, non credo che Dante fosse un progressista: basti pensare alle sue aspre critiche alla nascente borghesia fiorentina o al suo vagheggiamento di un ormai anacronistico Impero universale. In un certo senso, ha avuto le sue buone ragioni Edoardo Sanguineti a parlare, ormai molti anni fa, di un “Dante reazionario”».

Si chiama Tommaso ed è di Aquino. Conviene con il santo e filosofo che fede e ragione non siano concetti contrapposti, ma anzi vadano insieme nella direzione della verità?

«Oggi come oggi la fede è un problema per la ragione e perciò anche uno stimolo. Una situazione, in fondo, non lontana da quel che diceva Tommaso d’Aquino: ove ci sia contrasto tra ragione e fede, la ragione deve indagare più approfonditamente. Si pensi alla questione del Gesù storico, su cui è da poco uscito un interessante libro di Vito Mancuso: gli studi storici, negli ultimi secoli (e in particolar modo negli ultimi decenni), mostrano un Gesù molto diverso da quello trasmessoci dalla tradizione religiosa. Come venirne fuori? Chi la fede non ce l’ha, non ha il problema di venirne fuori: segue, semplicemente, quel che dicono gli storici. Chi, invece, la fede ce l’ha, ha bisogno di studiare per cercare di capire come e se è possibile una conciliazione con la ragione. In quest’ottica la fede, può aiutare la ragione, intersecandone il percorso».

Nella critica recente si tende a rivedere il concetto del pessimismo leopardiano, perché alla luce di una più ampia esplorazione parrebbe addirittura che il grande poeta recanatese possa essere visto come un ottimista. Cosa ne pensa?

«Su questo, secondo me, ha ragione Emanuele Severino: più che ottimista o pessimista, Leopardi è un nichilista. Parlando della “strage delle illusioni”, ha negato l’esistenza di qualsiasi valore in grado di dare un senso al dolore, e questo è nichilismo allo stato puro. Un nichilismo che anticipa addirittura la riflessione di Nietzsche sulla “morte di Dio”».

Usciamo fuori dagli italici confini e veniamo ai suoi scrittori stranieri preferiti. Chi nomina?

«Amo Dostoevskij, che per me è un gigante. Tra quelli un po’ meno conosciuti apprezzo in modo particolare Raymond Carver, che con grande abilità e stile essenziale ha raccontato l’America dei derelitti, la storia di questo grande Paese dal punto di vista degli sconfitti. Non li metterei, però, tra i miei preferiti in assoluto. A questa categoria appartengono Dante e Manzoni».

Veniamo a un altro autore: Tommaso Di Brango. Nel 2022 “Scritture dell’incompiuto”. Che opera è?

«È in buona sostanza un saggio sulla letteratura dell’800-900 e parla del senso di incompiutezza che la caratterizza. Il titolo stesso nasce dal fatto che da tempo cercavo di scrivere questo libro ma non riuscivo a sentirmi soddisfatto o, meglio, a sentirlo davvero concluso. Ma poi, alla fine, mi sono detto che l’incompiutezza non è così male: significa che, oltre ciò che si è già detto, c’è altro da sviluppare».

Nel 2024 “Racconti per caso”…

«Non mi ci vedevo proprio come scrittore di racconti, ma sono stato letteralmente trascinato dal coautore, il vulcanico e prezioso Paolo Secondini. Devo dire che alla fine non è venuto per niente male».


“Girard 100” è l’ultima pubblicazione che la vede tra gli autori...

«In questo caso parliamo di un’opera che si avvale dei contributi di studiosi eminenti e che io ho avuto l’onore e l’onere di coordinare insieme a Nino Arrigo e Francesco Crapanzano. Personalmente ho scritto il capitolo dedicato alla “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni».

Nel titolo c’è Girard. Spiega ai nostri lettori di chi si tratta? 

«René Girard è un antropologo francese morto nel 2015. Ha elaborato una teoria (la “teoria mimetica”) secondo cui i nostri desideri nascono per emulazione. Spesso, quando non vengono soddisfatti, ci portano a cercare capri espiatori e possono generare ogni tipo di nefandezza, dalle guerre ai femminicidi. Gesti estremi con cui sfogare la propria frustrazione».

È un appassionato di musica. Che brani ascolta in prevalenza?

«Amo la musica perché ritengo che dia energia. Ascolto parecchio la cosiddetta musica “classica” e in special modo Beethoven, senza però disdegnare l’età barocca. Sono un grande estimatore di De Gregori, Guccini, De André e Rino Gaetano, mentre tra i musicisti della nuova frontiera apprezzo i “Pinguini tattici nucleari”. Ma non posso non nominare anche Ennio Morricone, che assieme ai film di Sergio Leone mi accompagna fin dall’infanzia».

E veniamo al calcio. Sappiamo che è un tifoso della Roma ma che vive il calcio cercando di coglierne soprattutto la bellezza…

«Sì, posso ben definirmi un tifoso romanista non praticante. Ho apprezzato Zeman per il coraggio di dichiarare certe cose e di sfidare il potere calcistico dell’epoca, ma anche per il suo stile di gioco offensivo e spettacolare. Lo definirei un romantico del calcio».


E in quest’ottica ha apprezzato anche grandi avversari?

«Certamente. Ricordo un gesto esteticamente impeccabile ma certamente doloroso per il pur blando romanista che sono: la punizione di Platini che siglò il momentaneo 1-1 all’Olimpico nell’anno dello scudetto ’82-83. Questa, però, l’ho vista, per così dire, “in differita”: all’epoca non ero ancora nato e solo molti anni dopo, guardando vecchi video sullo scudetto della Roma, ho assistito a quella punizione. Anche quelle di Mihajlovic erano così belle e straordinarie che una volta arrivai ad esultare nel vedere la palla in rete: la sola volta che io abbia esultato per un gol della Lazio. La bellezza, ahinoi, va apprezzata oltre il tifo».

Il suo pensiero ricorrente sulla scorrere dei giorni e delle stagioni?

«La mia filosofia di vita può essere così riassunta: chiederci come stanno le cose può essere importante. Chiederci cosa possiamo fare per migliorarle, però, è più importante. Per questo l’incompiutezza è bella: perché significa che, in qualche misura, c’è ancora la possibilità di mettere in campo un nostro contributo».

Ha mai necessità di evadere dalla realtà?

«Ogni tanto ci vuole, anche per ricaricare le batterie».

Con Tommaso Di Brango potremmo parlare ancora per ore: di filosofia, del cosmo, di politica, della bellezza e di ogni altra forma di armonia. La sua mente è “spalancata sul mondo come carta assorbente”, per citare Guccini e un suo brano, quel Guccini che il professor Di Brango non disdegna di ascoltare, quando ha voglia di note e di energia.
Noi ci limitiamo ad osservare che ci sarebbe davvero piaciuto avere un professore così.

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione