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L'intervista

La magia (e le verità) del cinema. Fernando Popoli si racconta

Regista, sceneggiatore ma anche docente. Campano di origine, da oltre trent'anni vive a Ferentino

fernando popoli

Fernando Popoli, scrittore, sceneggiatore, regista, docente e anche critico cinematografico e teatrale

Partenopeo d'origine, ciociaro d'adozione, Fernando Popoli ci parla di cinema, del suo cinema, visto dall'occhio esperto che sta dietro la cinepresa.

Vico Equense, Napoli, Roma e infine Ferentino: perché questo approdo?
«Sono nato nel '43 a Vico Equense perché lì era sfollata la mia famiglia nel periodo bellico. Finita la guerra tornammo tutti a Napoli dove ho vissuto fino all'età di ventitré anni per poi trasferirmi a Roma per fare del cinema. Da oltre trent'anni vivo a Ferentino per una scelta… d'amore».

Quando ha cominciato a interessarsi al cinema?
«All'età di diciotto anni, frequentavo il cine club Napoli, nel quale arrivavano importanti registi a mostrare in anteprima il proprio film, Pasolini, Blasetti, Faenza, Squitieri… Allo stesso tempo frequentavo la libreria Guida a Portalba dove si presentavano libri di grandi scrittori, Moravia, Servadio, Dacia Maraini…».

Scrittore, sceneggiatore, regista, docente e critico cinematografico e teatrale: quale delle attività preferisce?
«Sicuramente quella di sceneggiatore. La parte più bella della mia attività creativa è quando comincio a ideare una storia, di solito a prima mattina quando mi sveglio, e prendo appunti che piano piano si trasformano in un soggetto e poi in una sceneggiatura».

Che cosa è il cinema per lei?
«Il cinema è la vita, quella che immagini e vivi attraverso la storia e i personaggi che crei. La vita reale non è la vera vita, è un'illusione, non ti appartiene. L'immaginazione, per i creativi come me, diventa la vita vera».

Il cinema spettacolo sembra soppiantare quello impegnato: se è così, come pensa di ridare linfa al secondo?
«Per me non c'è distinzione, si può trovare molto impegno nel cinema spettacolare e solo noia in quello impegnato. Consideri, per esempio, "C'era una volta in America": è un grande spettacolo che ci porta a ritroso nel tempo, in un'America mitica che esplora lo scibile umano e i rapporti di amicizia tra gli uomini, un discorso sulla nostalgia, alla ricerca del tempo perduto per dirla alla Proust, capolavoro assoluto che coniuga perfettamente le due componenti».

Qual è il rapporto tra il cinema d'essai e i giovani?
«Credo nessuno, pochissimi giovani vedono proiezioni d'essai, purtroppo la maggior parte vede film con effetti speciali sul proprio smartphone. Ho constatato nelle mie docenze come tantissimi studenti fossero del tutto ignari di personaggi quali Rossellini, De Sica e persino Charlie Chaplin».

A proposito, il digitale ha ucciso il cinema?
«Il digitale è stata una grande invenzione che ha diffuso maggiormente il cinema. Oggi chiunque, senza fondi e con uno smartphone, può fare un film. Il costo dei film è diminuito enormemente perché non c'è il costo della pellicola, dello sviluppo e stampa, del montaggio alla moviola, della correzione colore nello stabilimento, della stampa delle copie, tutto si fa col computer e si risparmia molto. Certo, i grandi film americani spesso vengono girati ancora in pellicola perché per i loro budget di centinaia di milioni di dollari, il risparmio è irrisorio, ma poi la lavorazione è fatta sempre col digitale».

La promozione cinematografica arriva nelle scuole italiane?
«Sì, arriva, e la mia attività ne è un esempio. Poi i professori organizzano spesso un progetto di visioni di film nei cinema per gli studenti e questo li spinge ad andare al cinema successivamente».

Di cultura si vive?
«Certo, e anche bene se si ottiene successo! Pasolini, quando venne a Napoli a fare il Decameron, girava per la città in Ferrari, Leone viveva in una bellissima villa con piscina all'Eur, Kubrick abitava in un castello e Moravia con la vendita dei diritti dei suoi libri guadagnava moltissimo. Il problema è ottenere successo, ma anche senza di questo si vive discretamente».

Film, attore e regista preferiti...
«"Roma città aperta", la scena della Magnani che corre dietro al camion dei tedeschi e viene mitragliata è insuperabile. Come attore sarei indeciso tra Volontè e Mastroianni, purtroppo non ci sono più e oggi preferisco Toni Servillo. Tra i registi scelgo quelli stranieri, Christofer Nolan, Stanley Kubrick e Roman Polanski».

Sono tuttora validi i festival cinematografici italiani?
«Alcuni sono validissimi, altri quasi inutili ma servono comunque a diffondere il cinema e a creare illusioni per chi li fa e per chi li frequenta, li fa sentire partecipi di qualcosa che è ben lontana da loro».

Manfredi, Mastroianni e De Sica avranno degli eredi in Ciociaria?
«No, lo escludo purtroppo. La situazione è decisamente modesta, il cinema è quasi inesistente. Credo di essere l'unico che vi dia un certo apporto».

Ha un sogno da realizzare inerente al cinema?
«Sì, girare un film con Tony Servillo, il più grande attore italiano vivente. In alternativa scelgo Al Pacino».

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