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Il saggio

"Il Giorno della Memoria". La supremazia "ariana" e le radici del male

L'Italia, la Germania e le origini dell'Olocausto. L'autoritarismo e il razzismo di Stato. L'analisi di Roberto Calvo

"Il Giorno della Memoria". La supremazia "ariana" e le radici del male

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra in tutto il mondo il "Giorno della Memoria". Tale ricorrenza venne istituita dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005 per rendere doveroso omaggio alle vittime della "Shoah". Sebbene siano note a tutti le modalità di esecuzione di quel folle progetto, in pochi tuttavia conoscono i presupposti ideologici e giuridici che determinarono l'affermazione e la materiale concretizzazione della dittatura nazista. Per chi volesse approfondire questo argomento, suggerisco la lettura di uno splendido saggio a firma di Roberto Calvo, da poco pubblicato per Laterza, ed intitolato "L'ordinamento criminale della deportazione" (144 pagine).

L'autore ha analizzato a fondo le "radici del male", e, nella premessa, spiega il senso della sua opera: «Questo libro intende gettare un po' di luce intorno alle basi formali dell'Olocausto in Germania e in Italia. Intendiamo alludere ai suoi fondamenti giuridici, ossia agli atti normativi e ai consequenziali provvedimenti delle autorità amministrative e giurisdizionali che condussero una minoranza di cittadini… alla morte civile, seguita dallo sterminio di massa… si trattò di un massacro organizzato dallo Stato, e quindi perpetrato sotto l'egida della legge scritta».

Tale criminale metodologia persecutoria determinò una "devalorizzazione del diritto", cui venne estirpata la sua "vivificante radice etica", e ciò sull'altare di «una dottrina che era fondata sull'idea di dominio in nome di una superiorità razziale, scritta sulle tavole mitologiche della plurisecolare tradizione teutonica». Osserva Calvo che «quelle idee menzognere costituirono la spina dorsale del Mein Kampf, autentica base costituzionale del terzo Reich», nel quale veniva teorizzata, da Hitler, «l'incontrastata e incontrastabile superiorità della razza bianca».

Così facendo, di fatto, «si crearono le premesse ideali per porre il fattore razziale al centro del ragionamento politico… il passaggio lacerante dall'individualismo al nazionalismo ebbe come corollario il disprezzo verso la tradizione giusnaturalistica, e il correlato superamento della sacralità dei diritti inalienabili dell'uomo». Sulla base di questi deliranti presupposti ideologici e genetici il principale obiettivo da colpire diventarono ben presto gli ebrei, i quali «erano riusciti a inserirsi nei meccanismi nevralgici della vita civile germanica, finendo con l'occupare posti di primissimo piano nel mondo della finanza, del commercio, della giustizia, della cultura e della politica».

E ciò a scapito della popolazione "ariana", che sino a quel momento aveva "gentilmente ospitato", in terra germanica, quella di stirpe semita. Il diritto, quindi, venne svilito a tal punto da divenire «mezzo servente alla perversione di chi, accecato dall'isterismo razziale e dal livore antisemita, radiava dal sistema… i diritti innati di ogni essere vivente… il dichiarato odio verso il popolo ebreo indusse Hitler a elaborare un vero e proprio piano di battaglia contro di esso, ossia contro un nemico straniero che non aveva nulla da spartire con la superiorità biologica e spirituale della gente nordica».

La battaglia che il dittatore nazista intendeva combattere era quindi quella tra «la salvezza dell'umanità ariana e il profitto dell'ebreo errante». E così fece infatti, sin dal giorno della sua nomina a cancelliere, avvenuta il 30 gennaio del 1933. Da quel giorno «l'autoritarismo e il razzismo sarebbero di lì in poi divenuti le colonne portanti del nuovo Reich».

Una volta che furono poste le basi formali ed ideologiche del "razzismo di Stato", occorreva creare un'impalcatura normativa che lo sorreggesse. L'occasione fu fornita dall'incendio doloso del Reichstag, avvenuto tra il 27 ed il 28 febbraio del 1933. Tale evento consentì ad Hitler di «adottare misure straordinarie per ripristinare l'ordine e la sicurezza, e di sospendere in tutto o in parte i diritti fondamentali dell'individuo».

Grazie ad esse «fu consentito al governo di limitare i diritti di libertà personale e di espressione (comprese quelle di stampa, di riunione, di riservatezza, di corrispondenza), nonché di compiere perquisizioni o confische e introdurre restrizioni ai diritti di proprietà». Il passo successivo fu l'entrata in vigore della "Legge dei pieni poteri" (23 marzo del 1933), attraverso la quale al cancelliere venne riconosciuta la possibilità di promulgare norme. In questo modo egli divenne di fatto titolare del potere legislativo e del potere di controllo sull'operato dell'esecutivo. Tanto è vero che, dopo di allora, il Reichstag si riunì appena diciannove volte, ed approvò solo sette leggi…

Da quel momento in poi, attraverso una serie di provvedimenti che erano tutti mirati alla difesa della razza e degli interessi ariani, si assistette ad una progressiva ed inarrestabile compressione dei diritti e delle libertà di chi, invece, ariano non era. Dopo essersi autoproclamato Führer (2 agosto del 1934), Hitler riuscì nell'intento di ridurre ad unità (e precisamente nella sua persona) lo spirito comunitario che riteneva di incarnare.

Evidenzia a tal proposito Calvo: «La volontà del Führer e il diritto si compenetravano: il diritto viveva nell'unicità della sua persona. Per astrazione ulteriore egli si compenetrava nella comunità di seguaci che in lui riconoscevano un'autorità illimitata e illimitabile… forte della sua autorità suprema che non conosceva confine alcuno, essendo totale, creava il diritto nella veste di massimo giudice… era la sintesi dei poteri pubblici, convergendo tutti nella sua persona… da quella osmosi fatale veniva in essere un'unità sostanziale e non meramente concettuale, compendiabile nel principio autoritario. All'ideologia nazista fu pertanto riconosciuto il ruolo di fonte del diritto: lo spirito nazionalsocialista, idealizzante l'odio razziale e antiebraico, era quindi dotato di forza imperativa».

Il 15 settembre del 1935 venne approvata la legge sulla cittadinanza del Reich, che sostanzialmente stabiliva che essa non era più un "diritto naturale", bensì era attribuita per mezzo della concessione di un titolo pubblico da parte dello Stato. Occorreva cioè dimostrare di meritarla. E gli ebrei – secondo l'ideologia nazista – non si trovavano in questa condizione. Ad essi venne innanzitutto negato il diritto di voto e fu loro proibita l'attribuzione di cariche pubbliche. Era quello soltanto l'inizio di una china che avrebbe poi condotto un intero popolo verso l'orrore della Shoah. Vennero poi proibiti i matrimoni con cittadini di sangue tedesco, e ciò con il fine di proteggere la purezza della genìa teutonica.

«Fu fatto divieto agli ebrei di esercitare la professione di avvocato, di notaio, di direttore di giornali, di consulente tributario, di agente di borsa. Fu loro vietato di dirigere imprese individuali e di trasporti. Venne ordinata la chiusura dei negozi di vendita al minuto e degli uffici di trasporto appartenenti agli ebrei. Fu fatto loro divieto dell'esercizio dell'attività artigianale, nonché l'acquisto di fondi o diritti reali… Fu imposto l'obbligo di deposito dei titoli azionari e obbligazionari, nonché il divieto di acquistare oggetti di lusso o di rilievo artistico. Fu vietato di frequentare teatri e cinematografi, nonché di assistere a concerti o di prendere parte ad altri eventi culturali cui partecipassero ariani… fu vietato di acquistare, detenere o portare armi o munizioni. I loro passaporti dovevano recare il segno distintivo di appartenenza alla razza ebraica. Fu revocata la licenza di guida, e vietato di detenere automezzi di qualunque tipologia… fu altresì vietato ad essi l'utilizzo di treni, tranvie, omnibus e metropolitane… Con provvedimento del 1° luglio 1943 gli ebrei furono sottoposti alla giurisdizione dell'autorità di polizia. In tale atto normativo si dispose altresì che, alla loro morte, tutti i beni caduti in successione sarebbero stati acquisiti di diritto dal Reich».

Appare evidente che tali imposizioni determinarono, ai danni degli sventurati destinatari, una sorta di "morte civile coattiva", che ben presto avrebbe purtroppo assunto connotati ancor più terribili sull'altare della delirante "soluzione finale"; la quale, attraverso l'orrore della deportazione nei campi di concentramento e dello sterminio razziale, si fondava sul folle progetto di riuscire a creare una "umanità superiore". Nella seconda parte della sua splendida monografia Calvo si dedica invece all'analisi del rapporto tra fascismo e discriminazione razziale. Ed alle implicazioni ideologiche e politiche che estesero il sentimento antisemita anche al nostro Paese.

Il saggista piemontese, a tal proposito, argutamente osserva: «Il Duce degli italiani, diversamente dal Führer dei tedeschi, non impersonava la volontà normativa del popolo, né a lui era stato riconosciuto un potere talmente sconfinato da permettergli di emanare direttamente il diritto. Di conseguenza, Mussolini, non fabbricava la legislazione per moto proprio come faceva Hitler, che, ergendosi a interprete dello spirito del popolo tedesco, ma essendo soltanto un despota legibus solutus, difendeva l'interesse suo e dei suoi accoliti in nome del più spietato dei patti di sangue che la storia abbia mai conosciuto. Il fascismo non abolì radicalmente la legalità, come invece successe nella Germania nazionalsocialista…» anche perché «…si sorreggeva su una diarchia ove il potere della corona fungeva da freno all'edificazione di un sistema compiutamente totalitario come quello tedesco… da noi la deriva razzista ebbe ufficialmente inizio con il "Manifesto della razza", pubblicato su "Il Giornale d'Italia" del 14 luglio 1938».

Tale scellerata ed abietta decisione non venne tuttavia determinata da radicate ragioni ideologiche, bensì da un pragmatico (e squallido) disegno politico. E infatti, ricorda Calvo, «Mussolini, a differenza di Hitler, non era invasato dal social-darwinismo razzista, né era un appassionato cultore della rivoluzione biologica, ma soltanto un tattico e un navigato retore; il quale, a un certo punto, ritenne che l'intolleranza giudaica, fomentata dall'idea di additare l'ebreo quale immaginario avversario della razza e delle istituzioni italiche, potesse essere utile ai più biechi fini di gestione del potere, diventando un fattore aggregante del regime e di mobilitazione delle masse nella lotta contro il fantomatico potere sionista. Fino a quella sterzata politica gli ebrei godevano nel sistema monarchico-fascista delle medesime libertà riconosciute agli altri italiani».

Proprio per questo motivo «la stragrande maggioranza degli ebrei italiani fu colta di sorpresa dalla campagna razziale, perché non nutriva alcun sospetto intorno alla realizzanda crociata antisemita stimolata dalla violenza in nome di una turpe missione purificatrice. Di punto in bianco l'Italia si trovò a essere antisemita, essendo – sino a quel momento – il rancore razziale di fonte antiebraica, a prescindere dalla posizione in questa materia tenuta dall'ecclesia romana, un fenomeno quasi del tutto inesistente nella penisola». Calvo lucidamente così osserva: «Un dato pare difficilmente confutabile: Mussolini, nel momento in cui strinse l'alleanza con Hitler, dovette accettare tutte le conseguenze di quell'intesa, compresa la deriva antiebraica... Viene però da osservare che il fascismo recava in sé il germe dell'antisemitismo, in quanto l'odio verso gli ebrei aveva un significato ideologico assolutista che ben si confaceva naturalmente alle idee politiche tipiche di una cultura squadrista, nazionalista e populista».

In pochi mesi, ad ogni buon conto, la politica legislativa antiebraica si mise sostanzialmente al passo con quella dell'alleato tedesco, tanto è vero che il 6 ottobre del 1938 il Gran Consiglio del Fascismo approvò la "Dichiarazione sulla razza", dalla quale conseguirono poi numerosi provvedimenti che compressero in maniera notevole i diritti e le libertà degli italiani di origine ebraica. Tuttavia il legislatore fascista, a differenza di quello tedesco, "non condizionò la conservazione della cittadinanza regnicola al fattore razziale". Evidenzia ancora Calvo: "L'antisemitismo acquisì anche da noi una carica icastica e propagandistica, prestandosi a identificare l'avido ebreo col nemico dello Stato a causa della sua indole antipatriottica e anticristiana. Un nemico immaginario, che serviva a giustificare le politiche imperialistiche e colonizzatrici ordite dal Duce". Ma, va detto, non tutti si piegarono supinamente al diktat fascista. Il mondo accademico e quello giudiziario (ed in particolare i magistrati, a differenza di quelli tedeschi), infatti, "non divennero la cassa di risonanza del razzismo di Stato, e non assunsero il ruolo di scudieri del Duce, né di paladini della filosofia segregazionista informante di sé la legislazione antiebraica".

La deriva antisemita assunse una sua orribile concretezza, in Italia, subito dopo l'armistizio di Cassibile, e la nascita della Repubblica di Salò, quando nelle mani di Mussolini e dei suoi ministri «furono depositati tanto il potere esecutivo quanto quello legislativo, stante l'assenza di un'assemblea parlamentare». In occasione del congresso del Nuovo Partito Fascista Repubblicano, che avvenne a Verona il 14 novembre del 1943, venne stabilito che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri». Tale decisione, di fatto, fece sì che il razzismo si elevasse «ad elemento distintivo del fascismo di Salò», e determinò poi la decisione di inviare «tutti gli ebrei in appositi campi di concentramento».

Questo fece sì che «quelle condotte disumane macchiarono di sangue indelebile anche gli aderenti alla Repubblica di Salò». Secondo Calvo, dunque, «mentre il fascismo maturo fece propria l'ideologia razziale del nazismo (apportando qui e là qualche formale elemento di novità), il neofascismo di Salò del nazismo accolse anche la devianza genocida. Si passò quindi da una concezione della comunità ruotante attorno all'idea razziale, a un'altra che faceva dello sterminio di massa il proprio motivo ispiratore… Salò divenne pertanto un tassello del congegno genocida nazista, al quale i neofascisti diedero il loro apporto determinante».

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