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A tu per tu con il cantautore

Malamente si racconta a Zapping. La musica come terapia: «Così combatto la paura»

L'intervista al cantautore Giovanni Carletti. La scrittura, le canzoni e la malattia: «Un modo per non arrendermi»

La malattia, il buio, la paura di non farcela. Poi la musica, l’unico strumento per andare avanti. Come una sorta di psicologo personale. Nella sua biografia dice: «Ogni parola che scrivo è un modo per non arrendermi». Giovanni Carletti, in arte Malamente, è un cantautore di Fiuggi. Quarantacinquenne, da quattro anni combatte contro un qualcosa più grande di lui.
Alla musica deve tutto. Con le sue canzoni vuole lasciare un messaggio. Vuole trasmettere, a chi sta attraversando un momento difficile della propria vita, la forza per continuare a lottare. Come? Con le parole. Mettendosi a nudo, su un foglio di carta e tirando fuori tutte quelle emozioni che sente dentro. Rabbia, dolore, angoscia, paura. Ma anche amore. Così di getto, quasi sempre in piena notte, nel silenzio. Ma dal suo studio non esce nulla senza prima il via libera della sua famiglia. Da qualche settimana ha pubblicato il suo ultimo singolo “Cuore di ghiaccio” che insieme agli altri brani, già disponibili su tutte le piattaforme digitali, andranno a comporre il suo primo album “Rosa Nero”.

Partiamo da “Cuore di ghiaccio”, il tuo ultimo singolo…
«Si tratta di una delle quattro canzoni del mio primo album. Una canzone come tutte le altre che segue un filo logico di quello che scrivo dopo aver passato una brutta fase della mia vita, come penso abbia passato chiunque. Con le mie canzoni non cerco il successo, ma di far arrivare il mio messaggio a chi come me, purtroppo, sta passando un momento triste e infelice».

Cosa significa per te questo brano?
«“Cuore di ghiaccio” è una canzone che è nata nel silenzio, nella solitudine, nella disperazione di un momento. È una canzone che sento molto mia perché, comunque sia, quando scrivi di un qualcosa che non riesci a tirare fuori con le parole, la scrittura ti aiuta. Almeno per quanto mi riguarda. Mi ha dato quella forza di andare avanti, di vivere giorno per giorno».

A cosa ti riferisci?
«Immagina di essere chiuso in un loop temporale quando provi un dolore come questo. Quindi il cercare di uscirne in qualsiasi modo possibile. La scrittura per me è stato un diversivo pazzesco, mi ha aiutato davvero tanto. Anche perché io non ho mai fatto questo. Ho sempre cantato per anni, ma è come scrivere un’altra canzone. Adesso canto e combatto contro un qualcosa più grande di me».

Dopo la scoperta della malattia come è cambiato il tuo rapporto con la musica?
«Radicalmente, diciamo, perché prima cantavo per gli altri. Adesso canto per me stesso innanzitutto, per curare me stesso. Quindi è un modo di cantare completamente diverso. Quando racconti e apri al pubblico esterno qualcosa di tuo, di personale, è diverso. È tutta un’altra musica».

Parliamo anche di un altro tuo singolo, “Anni spezzati”…
«“Anni spezzati” è stata secondo me la canzone più difficile da scrivere, proprio perché racconta quella parte nera e cupa che ho vissuto. È una canzone venuta proprio dal mio mal di vivere».

Tutti brani che verranno racchiusi dentro al tuo primo album…
«Sì, queste mie canzoni si racchiuderanno in un album, il primo che pubblico, che si chiamerà “Rosa nero”. Ci saranno canzoni rosa che evidenzieranno la parte rosa di questo mio percorso, ovvero le canzoni che parlano di amore, parlano di convivialità, di gioia. Dall’altro lato ci saranno le canzoni nere purtroppo, che invece evidenziano il malessere. E “Anni spezzati” è una di quelle».

Come nasce questa canzone?
«È nata alle due di mattina. Mi sono svegliato di soprassalto con la voglia di voler scrivere e raccontare al mondo quello che avevo, che stavo provando più che altro».

Quando hai capito, invece, che volevi scrivere e vivere di musica?
«L’ho sempre fatto, però poi da due anni a questa parte ho deciso più che altro di raccontarlo, di farlo presente. Non è facile, è un percorso complicato, perché come tu ben sai, sia nella musica sia nella vita, ci sono salite e discese. Però è proprio questo mio modo di farlo che mi spinge a continuare a volerlo fare. Ma più che altro perché ho usato la scrittura e i miei pensieri messi in canzoni proprio come uno psicologo personale».

Ecco, raccontaci come nascono le tue canzoni, i tuoi brani. Da cosa parti?
«Nascono da pensieri e da emozioni vissute in quel momento. Ho sempre annotato, da quattro anni a questa parte, tutto quello che mi veniva in mente. E l’ho scritto. Pagine e pagine. E poi queste piccole frasi sono state unite mediante una melodia che mi girava in testa, così sono nate le prime canzoni. Ne ho scritte ben cinquanta, quindi immagina quanti fogli ho sparsi per casa. Quaderni e quaderni e continuo a farlo perché poi, come ti ripeto, è un modo per esorcizzare anche la paura, no? Mi aiuta tantissimo a fare questo. Quindi tutto nasce da un’emozione. Vivi un’emozione, scrivi quell’emozione».

Qual è invece lo strumento che più ti rappresenta?
«La chitarra. Non ho mai suonato alcun tipo di strumento. Da quattro anni a questa parte, ribadisco, dovevo per forza mettere in musica quello che avevo scritto. Mi comprò una chitarra mia moglie, quasi per sbaglio. E allora ho cominciato a suonarla, da autodidatta, e da quel momento in poi me ne sono innamorato. Non la suono ancora pubblicamente perché non sono a livello di potermi esibire con la chitarra, però è il mio strumento preferito».

La tua famiglia che ruolo ha nella tua vita, nella musica e in questo momento per te difficile?
«Primario. Forse è proprio qui che ho capito realmente il valore vero della famiglia. Prima lo davo per scontato, invece adesso quando cominci a vedere che ci sono persone che soffrono per te, che ti sono accanto, che sono pronte a prendersi le tue paure, a prendersi le tue debolezze, per me la mia famiglia è stata fondamentale. Specialmente mia moglie e mio figlio sono stati fondamentali in questo percorso. Non credo di riuscire a farcela senza di loro».

Fai ascoltare a loro qualcosa in anteprima?
«Assolutamente sì. Sono i miei collaboratori, se vogliamo chiamarli così, soprattutto mio figlio. Quando scrivo il testo la prima persona a leggerlo è mia moglie. Quando compongo la musica, la prima persona ad ascoltarla è mio figlio. E poi nell’insieme deve piacere a tutti e tre, altrimenti senza il loro “lasciapassare” resta soltanto su carta. È proprio questo è il bello».

Sono anche un po’ la tua forza?
«Assolutamente sì. Io non lo voglio dire questo però, perché alla fine me lo dicono gli altri. Anzi, sono le mie canzoni che raccontano la mia forza. Proprio perché, come ti dicevo, non cerco il successo, credimi, non mi interessa il successo. Mi interesserebbe tantissimo aiutare chi sta vivendo un momento come il mio, soprattutto con le mie canzoni».

Tre aggettivi per descrivere la tua musica.
«Cruda, viscerale e malamente».

Quali influenze musicali ritrovi nei tuoi brani?
«Ho ascoltato tutti i generi musicali possibili, però non ho un’influenza ben definita».

C’è una canzone alla quale sei particolarmente legato, un artista al quale ti ispiri?
«Ti posso dire soltanto che il mio genere in questo momento, nel panorama della musica italiana, rappresenta un po’ quello che fanno band italiane come i Negramaro, i Modà, quindi questo stile qui, anche se non è quello che voglio».

Un po’ un rock romantico?
«Un pop rock, sì, armonioso, energetico».

C’è un artista che vorresti riportare in vita per incidere anche un duetto?
«Tantissimi. Guarda, io impazzivo per i The Doors, sono nato con queste canzoni, quindi Jim Morrison per me è stato un grandissimo artista, più che altro ha scritto dei testi davvero importanti. Quello che guardo nella musica non è soltanto la musicalità, guardo anche la scrittura che fanno le persone, quello che mi vogliono trasmettere, quindi ne ho tantissimi di personaggi ai quali mi ispiro. Ti dovrei fare un elenco».

I primi due?
«Jim Morrison sicuramente, Kurt Cobain dei Nirvana. Non c’è macchina che prendo che non abbia dentro un disco dei Nirvana o dei The Doors».

Qual è invece il ricordo più bello che hai legato alla musica?
«Sembrerà assurdo però proprio l’uscita di “Anni spezzati”, perché non volevo pubblicarlo. All’inizio non avrei mai voluto far uscire i miei singoli perché erano pensieri troppo personali, troppo pesanti, troppo legati alla mia persona. E quando uscì “Anni spezzati” fu il primo singolo pubblicato che comunque sia ha avuto un bellissimo boom e questo non me lo aspettavo. Tanto che non sono riuscito quasi a gestirlo all’inizio, a rispondere ai migliaia di messaggi, cosa che prima non avevo mai fatto, quindi questo è stato un momento fantastico. Il giorno dell’uscita del singolo è stata un’emozione bellissima per me. Lo rivivrei ogni giorno. Anzi spero che ogni singolo che uscirà da oggi in poi mi dia quella stessa emozione».

Ecco appunto hai parlato di messaggi, qual è il tuo rapporto con i social?
«Ci credi che io fino a un anno fa non ero presente su nessuna piattaforma social? A me non piacevano i social, quindi ho avuto un cambiamento radicale. Ovviamente non stare sui social oggi vuol dire non esistere. Io non volevo plasmarmi alla massa, non mi è mai piaciuto. Ovviamente quello che faccio me lo impone anche un po’ di essere presente sui social. E mi sta anche piacendo, quindi oggi sono abbastanza presente sui social e quotidianamente pubblico momenti delle mie giornate».

Come interagisci con i fan?
«È bello rispondere a chi mi fa qualche domanda, perché ovviamente arrivano in base alle canzoni che ho scritto, quindi è piacevole».

A questo punto però devi toglierci una curiosità, come nasce il tuo nome d’arte Malamente?
«Cercavo una parola che rimanesse impressa nella mente, rimanesse stampata, un nome che non va via, appunto. È cruda come parola, è una parola che è molto evocativa. Il segnale però che volevo dare con questo nome è che nella vita non va sempre tutto come deve andare, così come nella musica. Quindi racconto tutte quelle emozioni che le persone non riescono a dire, non riescono a tirare fuori, e lo faccio in maniera cruda, in maniera pesante, senza filtri. Ecco perché Malamente. Un nome d’impatto».

Tre dischi che porteresti con te su un’isola deserta?
«Nevermind dei Nirvana e “Rosa nero”, il mio disco. Preferirei portarne due più che tre. Quindi il mio e quello dei Nirvana, basta».

Perché?
«Perché se volessi portare i The Doors dovrei portare anche altri, perché sono legato comunque sia a una tipologia di musica che non c’è più, quindi non potrei portare i The Doors senza i Black Sabbath oppure i Deep Purple, e quindi mi fermo sui Nirvana e sul mio disco, che ancora ascolto. Sembra strano, ma le mie canzoni sono quelle che ascolto più di tutti, e non ci avrei mai creduto».

Sei molto autocritico?
«Sì, assolutamente, forse anche troppo».

Anche nella scrittura?
«Sulla scrittura no, perché scrivo di getto, e questo è un dono, me lo riconosco da solo. Oggi la scrittura è costruita, la maggior parte delle persone scrivono in 3, 4, 5. Io scrivo da solo, nel silenzio, soprattutto di notte, e quindi non sto lì a pesare le parole. Le parole escono da sole. Tanto che quando ho finito di scrivere mi meraviglio anche io di quello che ho scritto tante volte. L’autocritica non c’è sulla scrittura, ma c’è sull’unione di musica e scrittura».

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