Un predestinato. In molti lo definiscono tale. Ma a lui non piace. Per cui non defitinitelo così. Piuttosto Moreno Longo è un allenatore che ha tanta voglia di arrivare. Quello sì. Ma solo perché sa bene che alla fine il lavoro ripaga sempre. E lui è uno a cui il lavoro non fa paura. Tante ore sul campo di gioco. Molte altre nella sua stanza a vedere e rivedere partite. Studiare gli avversari. Non lasciare mai nulla al caso. Se poi a tutto questo aggiungiamo determinazione, grinta e voglia di vincere sempre e comunque, per un carattere molto vicino alla gente ciociara, allora davvero non gli manca nulla per diventare un grande.
Come è nata la passione del calcio in Moreno Longo?
«Giocando per strada fin da bambino. Poi nel cortile e nell'oratorio. Non c'erano videogiochi o altro. Il pallone per noi era tutto».
Quando ha cominciato a tirare i primi calci a un pallone, qual era il suo sogno nel cassetto?
«Sinceramente nessuno. Ho iniziato per pura passione. Semplice divertimento. In quel momento non pensavo certo che il calcio avrebbe rappresentato la cosa più importante della mia vita».
Che tipo di giocatore era?
«Uno che faceva della corsa, generosità e abnegazione la sua forza. Sopperivo alla qualità con queste doti. Oltre all'applicazione e la determinazione».
Aveva un idolo o un giocatore del passato al quale si ispirava?
«Nessuno in particolare. Diciamo che per il mio ruolo, terzino, era l'epoca di Paolo Maldini. Quindi potrei citare lui come punto di riferimento. Ma non mi ci sono mai avvicinato».
Oggi, invece, c'è un giocatore che pensa possa somigliarle per caratteristiche tecnico di gioco?
«Probabilmente Zappacosta».
E nel Frosinone di oggi ce n'è qualcuno che si avvicina a longo giocatore?
«Per lo spirito e la determinazione che mette in campo, sia nel singolo allenamento che in gara, posso dire Mirko Gori. Anche se, chiaramente, lui gioca in un ruolo diverso da quello che era il mio».
Il momento più bello della sua storia da calciatore?
«L'esordio in Serie A a soli diciotto anni. Del tutto inaspettato. Soltanto a un'ora e mezza dal fischio d'inizio di quel Milan-Torino, mister Sonetti mi comunicò la sua decisione. Una grande gioia. Difficile da esprimere a parole».
Il più brutto?
«Quel Sampdoria-Chievo, nell'anno della promozione dei veneti dalla B alla Serie A, in cui mi sono rotto i legamenti
del ginocchio. Perché alla resa dei conti quell'infortunio ha poi condizionato tutta la mia carriera di calciatore».
Il giorno che si è reso conto che non avrebbe più potuto giocare, quantomeno a certi livelli, aveva già capito che sarebbe diventato un allenatore?
«Assolutamente no. Avevo solo trenta anni. Lasciavo il calcio giocato a malincuore. Inizialmente non riuscivo ad accettare quella situazione e alzare bandiera bianca. Ci ho messo un po' per capire come colmare quel vuoto che mi sembrava insanabile. Poi ho trovato la mia nuova strada».
Molti tecnici, probabilmente i migliori in circolazione, Ancellotti, Guardiola, zidane, Allegri, solo per fare qualche nome, erano tutti centrocampisti con innato quel senso tattico per guidare le squadre in cui giocavano già nelle vesti di calciatore. Moreno
longo?
«Per certi versi anche io. Pur giocando da esterno di fascia in difesa e non in mezzo al campo. Negli di Lucca, Vercelli e Alessandria ero il capitano di quelle squadre e venivo considerato dai miei compagni una sorta di guida. Per esperienza, personalità e caratteristiche caratteriali. Ho sempre cercato di creare il giusto feeling tra i miei compagni di squadra e i
vari tecnici».
A proposito di tecnici, c'è qualcuno a cui si ispira in maniera particolare?
«Non direi. Come allenatore ho sfruttato il bagaglio degli insegnamenti ricevuti negli anni in cui ero stato calciatore. E poi, tanto campo e studio. Alla fine penso di essere soltanto me stesso».
Se oggi vedesse all'opera longo giocatore, lo farebbe acquistare dalla società in cui Longo è allenatore?
«Sì. Per un motivo molto semplice. Sarebbe uno di quei giocatori che in campo metterebbe l'anima. Disponibile sempre e comunque. E quei giocatori che mi danno il 110% io li voglio sempre».
Il momento più bello della sua carriera da tecnico: lo scudetto con la Primavera del Torino o la salvezza a Vercelli in B?
«Entrambi. Credo che alla fine sono stati i due obiettivi raggiunti che rispecchiano i momenti fondamentali della mia carriera. La forza di un uomo dopo una vittoria è cercare di ottenerne subito un'altra. Per cui quei due traguardi vanno di pari passo».
Si parla di lei come di un predestinato alla panchina della sua squadra del cuore, il Toro. Frosinone rappresenta
la tappa fondamentale per arrivare a coronare quello che probabilmente è diventato il suo sogno una volta intrapresa la carriera di allenatore?
«In tutta sincerità questa nomina di predestinato mi dà fastidio. Solo il campo può dimostrare cosa riuscirà a
fare Longo allenatore. Il mio pensiero è restare per tanti anni qui a Frosinone, perché vorrebbe significare aver centrato
tutti gli obiettivi prefissati».
Vercelli non rappresenta per lei solo la città dell'esordio in Serie B come allenatore, ma anche e soprattutto la città dove ha incontrato la donna della sua vita?
«Indubbiamente. Quando ero lì nelle vesti di giocatore ho conosciuto mia moglie Monica. Stiamo insieme da undici anni e abbiamo due figlie: Vittoria di undici anni e Angelica di dieci. La compagna ideale per poter fare questo lavoro non certo facile. Avere accanto la donna giusta nelnostro mestiere fa la differenza».
Com'è Moreno longo nel rapporto con la famiglia e più in generale fuori dal rettangolo di gioco?
«Sotto questo aspetto devo migliorare. Spesso e volentieri il mio lavoro mi porta a trascurare un po' la mia famiglia. E non parlo di una questione di tempo. Basterebbe dedicargli anche lo stesso di adesso, ma con una qualità migliore. Spero che con l'andare del tempo e l'esperienza possa riuscire in tutto questo».
Le piace andare al cinema?
«Succede soltanto per accompagnare le mie figlie a vedere un film che piace a loro».
Appassionato di musica?
«Abbastanza. Prediligo i cantautori italiani. Eros Ramazzotti o Vasco Rossi per fare qualche nome. Ma più in generale ascolto quella musica che mi aiuta a staccare con la quotidianità quando ne sento il bisogno».
Amante della lettura?
«Mi piace leggere biografie e romanzi. L'ultimo libro è stato Gli Sdraiati di Michele Serra. Così come la musica, un libro che mi coinvolge mi aiuta a staccare con il lavoro».
Il suo rapporto con i quotidiani sportivi?
«Da quando faccio questo lavoro cerco di non leggerne. Quelle rare volte che succede, nel bene o nel male, resto comunque distaccato. Preferisco pensare solo ed esclusivamente al mio lavoro quotidiano. Leggo, invece, quotidiani
di cronaca per essere sempre aggiornato su quanto accade nel mondo».
Crede in Dio?
«Sì, anche se non sono un assiduo praticante. Come mi ha insegnato don Aldo Rabbino, il cappellaio del Torino.
Nei miei tanti anni trascorsi lì, non bisogna per forza entrare in Chiesa per pregare».
Parliamo di Frosinone e del Frosinone?
«Con la famiglia viviamo a Ferentino. Una scelta dettata dal fatto che preferisco sempre abitare vicino al mio luogo di lavoro, in questo caso la "Città dello Sport", dove trascorro quasi l'intera giornata tra campo di calcio e ufficio. Però a Frosinone porto le bambine a scuola e spesso ci andiamo con Monica per fare acquisti e qualche passeggiata. Ma quello che mi
preme sottolineare è quanto piacevolmente mi abbia sorpreso tutta la Ciociaria. Ammetto che non sapevo della grande storia di questa terra. Ma non solo terra di cultura. Cucina ottima e ospitalità eccezionale. Sono stato accolto come se fossi  sempre stato qui. Davvero un motivo in più per fare bene e restare qui il più a lungo possibile».
Senza dubbio la stessa cosa che si augurano i tifosi del Frosinone. E allora in bocca al lupo mister. Che possa diventare un grande in questa terra che ammira così tanto.