Sanremo è Sanremo. L'esercito dei commentatori agguerriti storce il naso ma guai a rubargli il telecomando…  Che Sanremo sia Sanremo è una tautologia conclamata, ripetuta 69 anni or sono dal jingle di apertura dell'amato/odiato Festival. E l'ingrediente segreto della sua essenza succulenta è come ogni anno la polemica casuale, quell'acquolina attaccabrighe di criticare in tutto e per tutto ogni petalo di ogni bouquet, ogni pixel, ogni cavo allacciato per la messa in onda della diretta nazionale.  Come vegani al Mc Donald, i detrattori più arcigni si appiccicano col naso alla tv solo per il gusto di storcerlo e mentre la celebrazione canora ligure procede, loro - popcorn alla mano - si appuntano pro e contro sul bloc-notes degli argomenti da bar. Più contro che pro…perchè il pretesto la fa da padrone alla fiera dell'appunto feroce.

Dalla sigla Eurovision pretenziosa e antiquata al benvenuto impacciato di quel conduttore inesperto o trapassato, passando per una montagna russa di stilettate contro abiti, canzoni, ospiti e archetti dei violoncelli. Tutto troppo vecchio, tutto troppo nuovo: ogni scusa è buona perché il palco diventi una gogna e il pubblico il boia, ma guai a sottrargli l'ascia del telecomando. Sui divani del salotto affollati e stretti si consumano faide familiari per il televoto e i gruppi d'ascolto s'infervorano a difesa pupillo sbeffeggiato per essere stonato, della caduta di stile che invece è classe avanzata, della gaffe del comico che stende un monologo inadeguato, puntualmente tacciato di piaggeria o di tristezza a palate.
La polemica sterile – colpo di scena! - è sempre in cinta e la settimana degli usignoli si conferma teatro di scoop e contraddizioni. Appuntamento pop per una platea in haute couture che batte il palmo sul ginocchio a tempo di lirica e trap, tra artisti matusalemmi e emergenti miracolati, scandali e sontuosità. Il tempio dell'Ariston è un'arena di opinioni in cui il chiacchiericcio è accompagnato dall'orchestra sinfonica. Dirige l'orchestra il maestro Pettegolezzo.

La querelle non risparmia nessun aspetto della manifestazione a partire dall'abc: si dice Festival o Festivàl? E il trottolino amoroso era dudù o dàdàdà? Si estrae per l'occasione dal cappello delle parole inutilizzate la sofisticatissima ‘'kermesse'', per tutto il resto anno relegata tra ‘'kepleriano'' e ‘'kerosene'' dello Zanichelli. Si aprono le scommesse sul favorito e si dà quotata la caduta dalle scale della valletta con l'abito a sirena, attesa a ogni discesa come un'anatema di stregoneria. Pullulano i vincitori morali, eletti guru di morale che la giuria popolare non apprezzerà mai, succube dei talent e degli amici di Maria. Gli orecchi assoluti improvvisati jukebox diramano avvertenze di plagio per ogni brano in gara assimilato ad altri già incisi e mentre le visualizzazioni Youtube del brano scopiazzato impennano qualcuno facendo spallucce risponderà che ‘'in fin dei conti le note sul pentagramma sono pur sempre 7''.

Il canovaccio si ripete da circa 70 anni come la formula di annunciazione di ogni concorrente. Nel tourbillon di esibizioni e ugole d'oro, si fanno eco microfonati e non perché la vera scaletta dell'Ariston non si svolge solo dietro il sipario spalancato ma anche oltre lo schermo, nei commenti striduli del giorno dopo. La rete Ammiraglia conduce la flotta di opinionisti da tastiera all'assalto della fortezza del palinsesto, pronti a scatenare i pollici sui social e le lingue biforcute. E mentre la chiacchiera brusisce acida e ininterrotta, l'auditel sinfonicamente raggiunge vette inesplorate.  Lo spettacolo del paradosso non si spiega ma volta altissimo. 
Inspiegabile? No… in fondo - si sa - Sanremo è Sanremo.