Il minimo indispensabile. Uno zaino,due macchine fotografiche, un orologio Gps. E il desiderio di raccontare quello che da due mesi sta succedendo in Ucraina. Claudio Papetti fa il fotografo. È di Frosinone ma da qualche anno vive a Sabaudia. Ha collaborato con i quotidiani di questa provincia, ha fatto parte della squadra di Ciociaria Oggi e Latina Oggi.

I primi giorni di marzo è partito, direzione Ucraina. Un viaggio possibile grazie alle associazioni Remar e Progetto Arca, ong che si occupano di prima accoglienza. Prima tappa in Romania, al confine con la guerra. L'idea era quella di documentare la situazione dei rifugiati. È stato a Siret, Suceava e Oradea. Dal 18 marzo è in Ucraina. Odessa, Mykolaïv, Kharkiv. Passando da un campo profughi a un albergo dove per accedere era necessaria la parola d'ordine. A volte trovando ospitalità grazie alle famiglie del posto.

Con i giorni il suono delle sirene antiaeree è diventato familiare. Ha imparato a convivere con le bombe. Ma è stato impossibile abituarsi ai volti segnati dalla fame. Allo sguardo dei ragazzini che imbracciano un fucile e si preparano a sparare. Alla disperazione di chi cerca di fuggire. Di chi ha perso i propri cari, una casa, la quotidianità. Di chi ha perduto la speranza e prova soltanto a sopravvivere. Comunicare, soprattutto negli ultimi giorni, non è facile. La linea telefonica non sempre è ottimale e internet in alcune zone è fuori uso. Il cellulare squilla…

Claudio, hai deciso di immortalare questi giorni drammatici con la tua macchina fotografica. Con la consapevolezza che il rischio c'è…
«Spesso mi viene chiesto se ho paura. Quello che vedo qui è inaccettabile. Queste persone hanno bisogno di avere una voce. Certo, in alcuni momenti è tutto difficile. Occorre sempre avere un piano "B". Ma anche un piano "C" o un piano "D". Mi è capitato di fare a meno del trasporto che mi era stato promesso o di ritrovarmi davanti a strutture ricettive chiuse senza alcun preavviso. Anche fare una semplice telefonata diventa un'impresa. Più i luoghi sono sotto attacco, più le connessioni sono carenti. Anche se ci sono tecnici che operano tempestivamente per ripristinare le infrastrutture danneggiate dai bombardamenti».

Per chi stai lavorando?
«Sto lavorando stabilmente per alcune ong che si occupano di rifugiati e collaboro con agenzie di stampa e quotidiani italiani. Ho incontrato tantissimi colleghi, tantissimi giornalisti che ogni giorno, tra mille difficoltà, provano a fare il loro lavoro…».

Che cosa hai trovato a Odessa, a Mykolaïv e a Kharkiv?
«L'Ucraina è un Paese vasto e gli scenari sono diversi a seconda delle zone. A Odessa si vive ancora una parvenza di normalità. La città ha subìto pochi attacchi, per lo più erano obiettivi militari e strategici. Ma ci si sta preparando al peggio. Molti si sforzano di continuare a fare la vita di sempre, escono a passeggio con il cane, frequentano quei pochi locali rimasti aperti e in generale cercano di mantenere uno stile di vita il più "normale"possibile.

Mykolaïv, invece, è stata oggetto di una pesante battaglia ed è ancora sotto attacco. Si respira tutta un'altra aria. La situazione peggiore è a Kharkiv, a soli quaranta chilometri dal confine russo. Quando ero lì c'erano in media cinquanta bombardamenti al giorno, in pieno centro e nelle periferie. Alcuni villaggi nei dintorni di queste grandi città hanno subìto bombardamenti importanti ma, nelle zone in cui i russi sono stati respinti, la gente ha ripreso a lavorare la terra o ad allevare animali come prima. Non ci sono molte alternative per chi è nato qui…».

Com'è oggi la situazione? Come vivono gli ucraini?
«L'unica certezza è che non ci sono certezze. Nessuno sa cosa aspettarsi. Chi ha potuto lasciare tutto e andare via lo ha fatto. Chi è rimasto ha la consapevolezza che bisogna fare qualcosa e ognuno si è attivato per dare una mano. Ho incontrato persone straordinarie, che dall'oggi al domani hanno dovuto reinventare la loro vita, ragazzi che caricavano l'auto di aiuti umanitari per portarli ai civili bloccati nelle zone controllate dai russi senza sapere che fine avrebbero fatto.

C'è molta sinergia tra le persone e tutti sono uniti per supportare i militari al fronte, fanno arrivare loro armi, cibo, vestiti e medicine. Quando sono stato ospitato da alcune famiglie ho vissuto i momenti migliori. Una volta, in un giorno di apparente tregua, per il mio arrivo hanno organizzato una piccola "festa" chiamando anche il vicinato. Ho assaggiato i loro piatti mentre mi mostravano le armi e mi raccontavano cos'era diventata la loro esistenza dopo il 24 febbraio. Non c'erano soltanto sconforto e dolore, ma voglia di reagire, di combattere per difendere se stessi, i propri cari, la propria terra».

Vivere nella paura, in molti casi senza cibo, senza acqua, senza più una casa. Cosa significa vedere la guerra vivendola da dentro?
«Ho sempre divorato molta letteratura, documentari, film… Ho ascoltato le storie dei miei nonni. Ma vedere la guerra con i propri occhi è tutta un'altra storia. Un pomeriggio ero nel cimitero di Mykolaïv, in cerca di alcuni missili russi caduti tra le tombe. Le sirene hanno cominciato a suonare. Una situazione assurda che mi ha ricordato il racconto di mia nonna. Si trovava a Perugia e durante un bombardamento trovò rifugio in un'impresa di pompe funebri nel seminterrato della palazzina dove viveva con la sua famiglia. Ognuno scelse una bara. Suo padre disse: "Bene, se succede qualcosa siamo nel posto giusto!". Quel pomeriggio ho pensato la stessa cosa. Col tempo non fai quasi più caso al suono delle sirene, alle bombe, all'odore di bruciato, di sangue, alla vista dei cadaveri o dei bambini che giocano tra le macerie. Ma non è possibile pensare che questa sia la normalità…».

Il conflitto si sta spostando, i russi cambiano obiettivi, bombardano Kiev e Leopoli. Che differenza c'è tra le informazioni che arrivano in Italia e quello che stai vedendo?
«È passata un'idea sbagliata di quello che realmente è la forza bellica ucraina. E questo si evince anche leggendo vecchi articoli in cui si parlava di come Kiev sarebbe caduta in pochi giorni o di come i russi sarebbero dovuti sbarcare a Odessa già un mese fa. Ci sono stati errori di calcolo circa la potenza degli schieramenti in campo».

È la prima volta che ti trovi in un contesto del genere? Che cosa pensi ti lascerà quest'esperienza?
«Avevo visto le conseguenze della guerra in Siria. Questa volta è diverso poiché tutto ti accade davanti e devi imparare a reagire tempestivamente agli imprevisti e a capire fin dove puoi spingerti. All'inizio del mio viaggio ero in Romania tra i rifugiati indiani che studiavano medicina a Kharkiv. Quando mi hanno mostrato commossi le immagini della città che li aveva adottati e della loro università dilaniata mi sono chiesto se sarei riuscito a spingermi fino a lì. Una volta arrivato dentro quell'università, mentre fuori si udivano chiaramente le bombe e i colpi di artiglieria, mi sono detto che per quel giorno poteva bastare. Non sono in grado di dire adesso cosa mi lascerà un'esperienza così intensa. Vorrei solo ritrovarmi un giorno insieme ad alcune delle persone conosciute qui, condividere un borscht caldo (una zuppa tradizionale della cucina ucraina, ndr) con loro, pensando a tutto questo come a una storia assurda che non si ripeterà».

Claudio resterà in Ucraina ancora per qualche giorno. È tornato a Kharkiv, poi andrà a Leopoli. Entro la prossima settimana dovrebbe spostarsi in Polonia o in Romania, nei luoghi dove si sta concentrando il flusso maggiore di chi fugge. Quanto tempo si fermerà e dove andrà dopo non lo sa neanche lui. Sa soltanto che continuerà a fare il suo lavoro. Con la sua macchina fotografica.