C'era una volta la Lega Nord, o meglio la Lega Nord per l'Indipendenza della Padania. Quella del celodurismo di bossiana memoria. Quella che, partita dal numero 41 di via Bellerio a Milano, è arrivata a occupare posti importanti a palazzo Chigi. Quella Lega che si abbeverava alla fonte del Po, che adorava il "Sole delle Alpi" e che sognava la secessione dall'Italia al grido di "Roma ladrona" e di "Padania is not Italy". L'ideologo di quella stagione politica post "Mani pulite" era il professor Gianfranco Miglio. Giurista, politologo, accademico e politico italiano, è stato un convinto sostenitore della trasformazione dello Stato italiano in senso federale o, addirittura, confederale.

Fin dagli anni Ottanta, in alcuni articoli apparsi sul Sole 24 Ore, Miglio aveva mostrato di apprezzare la novità di quelle che allora erano ancora chiamate le "leghe", dato che l'unificazione dei vari movimenti regionali nella Lega Nord era là da venire. Mentre la maggior parte dei commentatori appariva incapace di cogliere la specificità di quella nuova dimensione politica, che metteva in contrasto dicotomico rivendicazioni locali e potere centrale, egli aveva colto come stesse emergendo qualcosa di inedito, per taluni aspetti rivoluzionario e, a suo giudizio, potenzialmente positivo: una discontinuità che andava a minare la logica stessa di quella modernità statale al cui studio si era dedicato per larga parte della sua vita intellettuale. Nelle spinte centrifughe che iniziavano a manifestarsi in Veneto e in Lombardia egli coglieva, più di ogni altra cosa, il dissolversi di quel progetto nazionale che aveva preteso di far crescere il Mezzogiorno attraverso l'assistenzialismo e i trasferimenti. In questo senso, egli iniziò a pensare che, al di là delle molte ed evidenti debolezze, il leghismo aveva in sé una carica "liberista" che poteva soltanto giovare alla società italiana. Anche quando la Lega bossiana non aveva ancora coniato i suoi slogan volti a collegare federalismo e mercato (nella fase in cui Giancarlo Pagliarini dettò le linee del programma economico), Miglio avvertiva come la localizzazione del potere potesse comportare una responsabilizzazione degli attori politici. E come lungo questa strada fosse possibile dare una risposta ben più soddisfacente al problema che egli aveva tentato di risolvere quando aveva introdotto in Italia, richiamando la lezione di Carl Schmitt, il tema del "decisionismo".

Nella sua opera del 1990, edita da Laterza, "Una costituzione per i prossimi trent'anni", una lunga intervista sulla Terza Repubblica di Marcello Staglieno al professore comasco, quest'ultimo tracciava un'ipotesi di riforme che, partendo dall'assunto per cui l'Italia non potesse diventare uno Stato nazionale come la Francia, ma regolare la convivenza dei propri cittadini soltanto nel quadro di un assetto federale o confederale che riconoscesse le particolarità etniche, storiche, sociali, culturali ed economiche, definiva la potenziale esistenza di tre marcoregioni. I soggetti del patto federale coincidevano in larga parte con le patrie etno-linguistiche o addirittura, era il caso del Sud Italia, con antichi Stati preunitari. Nei progetti pubblicati nel corso degli anni cambiavano i nomi delle comunità territoriali in cui si sarebbe dovuta articolare la Confederazione italiana: Repubbliche nel 1993, Cantoni nel 1995, Comunità regionali nel 1999 e 2000. L'impianto del modello restava in larga parte immutato.

La Comunità regionale del Nord coincideva con la Padania (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) ove sono parlate le lingue padane gallo-italiche e venete; la Comunità regionale del Centro corrispondeva in gran parte all'area ove sono parlate le lingue dell'italiano centrale o mediano (Marche, Umbria, Lazio e Toscana); la Comunità regionale del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria) coincideva con l'antico Regno di Napoli, territorio in cui sono parlate le lingue italiane meridionali. Le cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige/Sud Tirol, Friuli Venezia Giulia) venivano riconosciute nella loro peculiare identità, rese completamente autonome come avverrebbe per le tre Comunità regionali: istituzioni pienamente responsabili in materia di tassazione e imposte, non più dipendenti dai trasferimenti dello Stato centrale.

Miglio scriveva nel Modello di Costituzione federale per gli italiani (1995): "Comunque si rigirino le cose, i Cantoni della Federazione devono essere formati dalle quindici Regioni a statuto ordinario, che già vengono abitualmente raggruppate a fini statistici e geo-economici (ma anche dal linguaggio quotidiano) – in tre aree: la Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), l'Italia centrale (Toscana, Umbria, Lazio, Marche) e l'Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria), unificate ciascuna da una innegabile omogeneità storico culturale".
Restava il problema della localizzazione della capitale. Per Gianfranco Miglio la sede del Parlamento della futura Italia federale doveva essere a Frosinone. Nel capoluogo della Ciociaria si sarebbero dovuti riunire i consigli della Repubblica del Nord, della Repubblica dell'Etruria e della Repubblica del Sud, rispetto alle quali Frosinone era equidistante, con buona pace di Rieti. Il concetto di capitale era "obsoleto", spiegava Miglio, perché "le funzioni devono essere distribuite nel territorio": con l'esecutivo a Milano, Camera e Senato a Palazzo Carignano a Torino, gli organi di controllo a Padova o a Verona, e i consigli delle Repubbliche e gli "organi dell'Unione italiana" concentrati a Frosinone. Il tutto lasciando, però, a Roma il Papato: "Roma rimane la città del Papa, e ci sta benissimo".