Stefania Romanelli è una ragazza degli anni '80. Una dottoressa dagli occhi luminosi e dal sorriso taumaturgico che dona sicurezza a chiunque ci si scontri volontariamente o casualmente. Stefania è nata il 30 giungo del 1961, era martedì, e mentre lei veniva alla luce si spegneva Carl Gustav Jung.

Fin da piccola voleva fare il medico, figlia di un'ostetrica era avvezza a quel mondo fatto di aiuto al prossimo e chiamate urgenti. Poi una domenica, quando era all'ultimo anno delle scuole superiori, era nel letto con sua sorella, la sua gemella, a riflettere sul futuro, si ipotizzava l'istituzione del numero chiuso alla facoltà di Medicina e così dopo un'approfondita riflessione le gemelle Romanelli si presentarono belligeranti in camera di mamma e papà: "Se non entriamo proveremo il test finché diventeremo studentesse di Medicina". Non ce ne fu bisogno, entrambe entrarono e si trasferirono a Perugia per gli studi. Poi le strade si separarono per la laurea, una discusse il giorno prima dell'altra, una divenne psichiatra e Stefania divenne medico "della gente".

Il 1988 è stato un anno importante, prima la laurea e poi il matrimonio. Stefania ha iniziato subito a lavorare, è diventata madre di tre meravigliose figlie ma nel suo cuore una vocina sempre più forte urlava, la voglia di partire era tanta. Era già forte dai tempi dell'unversità ma i soldi necessari non c'erano, poi, l'allora fidanzato poi marito le disse "Se parti non so se mi troverai" e la scelta, ovviamente, ricadde sull'amore e sulla famiglia. Ma con il tempo le figlie sono cresciute, la famiglia è diventata "autonoma" e quella vocina si è svegliata, travolgente più che mai, come la corista di un concerto rock. Complice della riscossa di Stefania è proprio la figlia, Andrea, giovane infermiera, che durante gli studi ha conosciuto una collega che lavorava con un'associazione, l'Aviat.

"Ho scritto una e mail all'associazione – spiega Stefania - e mi hanno risposto. Il mio cuore era già in Africa". Stefania ha preparato lo zaino ed è partita con sua figlia. Non l'aveva mai vista lavorare e per lei è stata una grandissima emozione. "Siamo partite con due zaini da 43 chili pieni di medicinali di base, bende, garze, disinfettanti. Lì c'è bisogno di tutto".

Destinazione Togo. In Africa Stefania vede con i suoi occhi un altro mondo. "Siamo stati in una missione e ci muovevamo, medici itineranti! Abbiamo visitato villaggi e orfanotrofi. Poi un giorno una missionaria ci ha proposto di andare a visitare un villaggio: Avegodo. Ci siamo messi in viaggio, 10 chilometri in mototaxi su minuscole strade sterrate e poi ancora un chilometro a piedi fino al piccolo villaggio. Un sentiero collegava il villaggio a una pozza d'acqua maleodorante e abitata da insetti, animali e rospi. Lì i bambini, quasi tutti, muoiono di gastroenterite.

Nei periodi di siccità addirittura l'unica fonte idrica a disposizione si trova a sette chilometri, in un altro villaggio, ma la qualità dell'acqua è la stessa. Fonti idriche contaminate. Non potevamo accettarlo, non è umano e abbiamo promesso che avremmo realizzato un pozzo. Tornati in Italia ci siamo dati da fare e abbiamo avviato una raccolta, proprio la settimana scorsa quel pozzo è stato inaugurato. Non ci vuole molto, con 6/7.000 euro puoi cambiare la vita a qualcuno. Lavorare con l'Aviat è bello, tutto quello che si raccoglie viene portato direttamente sul posto, le cose si fanno veramente. Chi parte come volontario si paga il viaggio. Il responsabile è il dottor Mirri, un ginecologo. Per me sicuramente è stata un'esperienza bellissima, da rifare. Se il lavoro me lo permette partirò ancora, sarà la mia vacanza, il mio periodo migliore. Consiglierei a tutti di partire, non servono solo i medici". 

Dell'Africa e del Togo Stefania ha un'immagine: "Loro hanno un modo di affrontare la vita del tutto diverso da noi. Qua vedi la sofferenza nelle singole persone, lì c'è ovunque ma c'è anche una gioia di vivere grandissima. L'odore della morte e del nulla sono fortissimi, non c'è acqua in molti villaggi e dove non c'è acqua non c'è vita. Qui in ambulatorio dopo dieci minuti di attesa i pazienti iniziano a discutere, lì arrivano a centinaia e aspettano il loro turno per ore senza proferire parola. Ho chiesto ad una donna come mai fossero così quieti nonostante l'attesa e lei mi ha risposto "Voi bianchi avete l'orologio noi abbiamo il tempo" .

Loro accettano la vita come viene: devo andare, vado; devo aspettare, aspetto; muore mio figlio, lo accetto. Ma l'accettazione della vita e di quello che ci mette davanti è anche un limite perché chi accetta tutto fa anche poco per cambiare la propria condizione. Non sono abituati a cambiare, non hanno quel pizzico di speranza che però possiamo donargli noi, aiutandoli con amore e rispetto".