Subire, combattere o governare l'integrazione? I fenomeni migratori sono stati croce e delizia degli imperi antichi e sono il crocevia che può decidere i destini delle nazioni moderne, Italia del 2019 compresa. La storia di Roma si offre come itinerario emblematico di ciò che che accadde agli imperi: dall'ascesa per agilità d'integrazione alla caduta per sopraggiunta incapacità di cogliere e accettare il diverso.

Dapprima furono, nell'Urbe delle cento etnie, una risorsa giovane e feconda. L'inizio della fine venne quando la classe dirigente si dimostrò inetta a elaborare un compromesso, tanto che l'Impero avrebbe potuto continuare ad esistere se i romani avessero saputo integrare i barbari, come ha potuto evidenziare nei suoi studi, ad esempio, l'accademico Raimondo Fassa.

Una lezione per i governanti moderni, ai quali il popolo chiede di guardare più in là del proprio naso e di andare oltre le contingenze. La civilitas (civiltà) antica era basata tutta sulla civitas (cittadinanza), e quest'ultima era, per i Romani, lo strumento principe dell'integrazione politica. L'Impero, certamente, non poteva estendersi alle terre dove risiedevano i Barbari "senza città". Ma nulla vietava che i Barbari potessero trasferirsi nell'Impero, qualora ne avessero accettato, in tutto o in parte, le regole. I Romani, infatti, non coltivavano alcun pregiudizio etnico e razziale: la "romanità" coincideva, piuttosto, con un patrimonio civico e culturale assimilabile, condivisibile, inclusivo, non escludente. Ciò non era escluso dalle tradizioni romane sulla cittadinanza. Ne era, anzi, la logica conseguenza.

Vi era molto etnocentrismo in questo atteggiamento. I Romani ammettevano che persino i Barbari potessero diventare come loro, oppure che potessero mantenere le loro tradizioni, pur restando all'interno dell'Impero. Ma non si sognarono mai di diventare loro come i Barbari. Eppure, di fronte a certe rigide chiusure di cui è capace la nostra società (che sembra ritenere alcune comunità in linea di principio non integrabili), può sembrare a volte che il loro atteggiamento fosse più avveduto del nostro.

Tutto ciò spiega come mai i Barbari abbiano sempre avuto a che fare con i Romani, tanto che le armi stesse da loro utilizzate erano per lo più importate dall'Impero. È quindi del tutto superata l'idea che solo nell'età del Dominato, cioè a partire da Diocleziano, contingenti di Barbari avessero incominciato a essere massicciamente reclutati nell'esercito imperiale, e che il servizio militare fosse il principale veicolo tramite il quale essi entravano nell'Impero.

Fin dai tempi di Nerone comunità barbariche vennero aiutate a insediarsi in territori dell'Impero, contro il pagamento di tributi. Non solo, ma, spinti dalla povertà, i Barbari incominciarono assai presto a svolgere, presso le famiglie romane – e non solo le più abbienti – tutta una serie di mansioni per le quali i Romani non avevano più risorse umane. 

"Uomini senza terra e terra senza uomini": questa formula con la quale economisti e sociologi sogliono designare le migrazioni rurali interne, potrebbe proporsi (con contenuti e significato certo assai diversi) anche a compendio delle esigenze che presiedettero agli stanziamenti barbarici dal tempo di Augusto al tempo di Teodosio I.

Ogni Impero, quello romano come quello contemporaneo, era una grande area di "benessere". Era del tutto naturale che chi ne stesse fuori intendesse fruirne, e chi vi era dentro lo volesse massimizzare. I Barbari entrarono nell'Impero come "badanti", portatori d'acqua, facchini, oltre che come soldati, e non invasero di punto in bianco l'Impero romano.

Ci si infiltrarono a poco a poco. Le cosiddette "invasioni" barbariche (ma oggi si parla, più correttamente, di "migrazioni" e François Pinault, nell'Introduzione a Roma e i Barbari, parla addirittura di "metamorfosi") ebbero luogo soltanto nella pars Occidentis, e nella sua fase terminale, quando ormai l'Impero aveva perso la sua capacità assimilativa. E spesso furono vissute dai contemporanei come fenomeni "interni" all'Impero e il loro carattere "epocale" non venne percepito subito.

Alarico cercò di legittimare il suo operato proprio in questo modo, presentandosi cioè come un "nuovo Stilicone": un magistrato romano che reclamava il soldo per le sue truppe, le quali combattevano in effetti in nome di Roma, al pari di quanto era avvenuto durante le guerre civili del I secolo a. C. Del resto molti Barbari, per lo più e per parecchio tempo, null'altro desideravano che essere assimilati all'Impero. Confermava tale asserto l'operato dell'Imperatore Teodosio, il cui più fidato collaboratore fu il vandalo Stilicone, magister utriusque militiae (ossia capo supremo dell'esercito) e sposo di sua nipote Serena.

E il poeta Claudiano, non a caso nativo di Alessandria d'Egitto, non mancò di esaltare Stilicone come ultimo custode della romanità. Gli stessi figli di Teodosio sposarono l'uno – Onorio – le figlie di Stilicone stesso, l'altro – Arcadio – la figlia del franco Bauto, Eudossia: la quale fu la prima imperatrice autenticamente "bizantina". Ciò significa che i Barbari romanizzati non solo potevano raggiungere i gradi più elevati dell'amministrazione, ma addirittura entrare a fare parte della famiglia imperiale, con discendenti reputati idonei a salire al trono. Lo testimonia il destino di un'altra figlia di Teodosio, Galla Placidia, andata sposa al capo visigoti Ataulfo, che meditò di fare erede del trono imperiale il figlio avuto da questi. Fu proprio la chiusura del tardo Impero (e per il prevalere, in Occidente, della linea politica dell'insicuro Onorio su quella della spregiudicata Galla Placidia) a fare sì che il Barbaro acquisisse un'autonoma identità politica e si autonomizzasse, nello stesso tempo facendosi portatore di istanze di cui prima era considerato responsabile l'Impero.

La "costruzione politica" del popolo barbaro ebbe luogo a partire da almeno due fattori. Il primo era che le "etnie" barbare da noi conosciute (Visigoti, Ostrogoti, Alani, Vandali) erano in realtà tutt'altro che unitarie. Siamo stati noi, con una serie di semplificazioni, a "creare" tali popoli, in realtà frutto dell'aggregazione di genti disparate. Il secondo fattore era che i Barbari divennero veramente tali, e cioè irriducibili alla "forma" dell'Impero, con la conseguente sua dissoluzione, solo quando venne mano, in capo ai Romani, la capacità di integrarli. I Barbari furono contenuti finché ritenuti "integrabili".

Finché i Romani, cioè, riuscirono a essere titolari della loro formidabile capacità di "dominare il cambiamento", i Barbari non rappresentarono nulla di particolarmente pericoloso. Con l'espressione, squisitamente moderna, "dominare il cambiamento", s'intendono due cose. La prima è la capacità di intendere e dominare le circostanze. La seconda consiste invece nella capacità di "dominare se stessi", di non arretrare di fronte al diverso, di non considerarlo irriducibile a sé. Quella che Santo Mazzarino chiamava la "fine del mondo antico" non fu, insomma, una necessità storica.

Anzi, le "necessità storiche" non esistono. Senza cullarci in quel gioco della mente che è l'ucronia, le innumerevoli testimonianze ci indicano con chiarezza come anche i Barbari che "distrussero" l'Impero fossero, in realtà, ancora integrabili in esso, qualora la classe dirigente imperiale fosse stata ancora titolare di quelle doti di prudenza e di elasticità (oltre che di fierezza e sicurezza) di cui aveva dato prova per secoli.

Che l'Impero romano d'Occidente dovesse necessariamente cadere, e con lui le sue manifestazioni più evidenti, come l'arte "figurativa" classica, è, dunque, un'ipotesi frutto solo di una sorta di attenzione retrospettiva, alla base della costruzione di tutti gli Zeitgeist, in virtù della quale gli eventi antecedenti alla "caduta" vengono selezionati, letti e interpretati come se per forza dovessero tutti andare in quella direzione e comportare quella conseguenza.

In realtà, se quella conseguenza non si fosse verificata, selezioneremmo degli eventi diversi e in modo diverso li interpreteremmo: «l'Impero del IV secolo, ricostruito da Diocleziano e Costantino, era più solido che mai. La caduta della sua metà occidentale è stata un incidente imprevedibile, dovuta a una concatenazione fatale di molteplici cause; non ha avuto una grande causa istruttiva, non dà una grande lezione […] la questione del crollo di una grande costruzione è un problema storico falsamente rilevante» sostiene (Paul Veyne in "L'Impero grecoromano".

L'Impero, insomma, sarebbe potuto ancora continuare (e di fatto una presenza romana continuò in alcune regioni, per esempio Renania e Burgundia), se la classe dirigente romana fosse stata capace di un compromesso con i Barbari "interni" all'Impero. Lo prova la successiva storia dei regni significativamente detti "romano-barbarici". Il re dei Franchi Childerico – padre di Clodoveo, il "nuovo Costantino" (il quale sì avrebbe liquidato gli ultimi resti della Romanità nelle Gallie ma, nello stesso tempo, gettato le basi di quella monarchia che, di lì a qualche secolo, avrebbe rifondato l'Impero) – fu inumato da buon capo barbaro qual era con le sue armi, i suoi gioielli e i suoi cavalli sacrificati, ma nella tomba portava anche il manto di porpora di depositario dell'autorità romana e il sigillo inciso a suo nome "Childirici Regis".

E i Barbari apparentemente più contrapposti a Roma, i Vandali, furono quelli che più rapidamente ne assimilarono i costumi, mentre i modelli architettonici romani si imposero ovunque. Ancora in età teodoriciana si provvedeva al restauro degli antichi monumenti e gli aristocratici – sia goti sia romani – vivevano nelle antiche ville, con un esempio di integrazione e assimilazione per certi versi esemplare. E non è forse vero che la Chiesa cattolica poté "prendere il testimone" dell'Impero di Roma proprio perché seppe nei secoli dar prova di quell'ernstauliche Elastizität (incredibile elasticità) in cui Carl Schmitt individua una delle peculiari sue caratteristiche?

Intelligenza, elasticità e prospettiva è quello che si chiede oggi a chi governa, per non essere travolti dai cambiamenti ineludibili del mondo. E per avere le risposte basta leggere la storia. Anche per evitare, come diceva Marx, che la storia si presenti "la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa".