L' epidemia di "Coronavirus" che sta allarmando il mondo intero negli ultimi giorni, è soltanto l'ultima di una lunga serie di gravi eventi epidemiologici che hanno colpito il genere umano nel corso dei secoli. La "pandemia" più grave di sempre (in termini di numero di vittime) fu certamente quella che fu causata dalla diffusione della cosiddetta "influenza spagnola" e che, tra il 1918 e il 1920, determinò un numero di morti stimato tra i cinquanta ed i cento milioni. Tuttavia, in termini percentuali assoluti, il più spaventoso evento epidemico della storia dell'Occidente si verificò tra il 1348 ed il 1351 a causa della "peste", malattia infettiva che sterminò circa un terzo della popolazione europea del tempo (che era di circa 75 milioni di persone).

Per coloro i quali volessero approfondire questo argomento di grande attualità, segnalo volentieri il dettagliatissimosaggio afirmadello storicotedesco Klaus Bergdolt, intitolato "La peste nera e la fine del Medioevo" (Piemme, 375 pagine). Il libro non solo aiuta a comprendere in che modo quella terribile epidemia si diffuse in tutto il mondo occidentale dell'epoca, ma – anche e soprattutto – quali concreti effetti ebbe sulla vita della popolazione, sui rapporti sociali e sull'economia. Ed infatti l'autore, già nella premessa, chiarisce che la «peste nera cambiò l'Europa del Medioevo almeno quanto le guerre mondiali modificarono il mondo moderno...» e ciò anche perché «...le epidemie dell'antichità non ebbero mai quell'effetto sistematico e capillare che ebbe invece la peste "medievale"...».

Il termine "peste", nell'antichità, veniva utilizzato in maniera piuttosto indiscriminata ogni volta che ci si voleva riferire alle varie epidemie (di vaiolo, tifo, febbre rossa ed altre malattie infettive) che periodicamente sconvolgevano l'esistenza dei popoli e delle civiltà. Ciò era dovuto – spiega Bergdolt – al fatto che «i medici del tardo Medioevo non conoscevanoné lacausané ilmodo in cui la peste si diffondeva. Nel XIV secolo non esisteva né la possibilità di identificare il suo agente patogeno, né la conoscenza teorica per scostarsi dalla medicina classica del tempo, che era di orientamento "umoralpatologico"». La pandemia del 1348, tuttavia, venne effettivamente scatenata dal bacillo "Yersinia", o "Pasteurella Pestis", che fu scoperto soltanto nel 1894 dal medico svizzero Alexander Yersin. Si annida soprattutto nei topi, tanto è vero che il principale vettore di trasmissione della malattia – dai roditori agli umani – è la cosiddetta "pulce dei ratti".

Tra uomo ed uomo, invece, l'infezione non solo avviene attraverso le lesioni cutanee causate dal morso delle pulci, ma anche tramite le goccioline di saliva espulse con i colpi di tosse del soggetto malato. La peste esiste in tre principali varianti: quella "bubbonica" (che colpisce soprattutto i linfonodi); quella "setticemica", (che attraverso il flusso sanguigno attacca gli organi); e quella "polmonare", che è la più letale, la quale fa assumere al malato un colorito cianotico, e che, proprio per questo motivo, è infatti comunemente denominata "peste nera".
Il periodo di incubazione è piuttosto breve, tanto è vero che, molto spesso, la morte dello sventurato che la contraeva avveniva in poche ore, o al massimo in pochi giorni. Attualmente la peste non rappresenta più un serio pericolo sanitario per la popolazione; e questo perché i moderni antibiotici sono in grado di controllare efficacemente la stragrande maggioranza dei casi di infezione, e limitare i decessi.

Tuttavia, nel 2017, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, esistevano ancora ben 14 focolai di rilievo in tutto il mondo (soprattutto in Africa, Asia ed America Latina). Bergdolt descrive molto bene quello che avvenne, soprattutto in Italia, quando scoppiò l'epidemia. E scrive: «Per arginare l'epidemia, furono presi provvedimenti che suscitano la nostra ammirazione. Le autorità veneziane stabilirono, per esempio, regole affinché nel più breve tempo possibile si provvedesse a sepolture di massa, affinché le carogne di animali fossero allontanate, e i malati venissero isolati, e introdussero una specie di obbligo di denuncia (anche se una quarantena vera e propria è documentata solo nel 1374 a Reggio Emilia, o nel 1377 a Ragusa)». Al tempo stesso, come è facile immaginare, i "buoni consigli" si mescolarono a disposizioni profilattiche di dubbia efficacia.

Il medico fiorentino dell'epoca, tale Tommaso del Garbo, infatti, consigliava, per proteggersi dal contagio «pane intinto nel vino, e le famose panacee quali la triaca e il mitriato, oltre ai chiodi di garofano, il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un'azione disinfettante...
una volta lasciata la stanza di un malato il visitatore doveva lavarsi le mani e la bocca con aceto e vino. Erano considerati altresì efficaci cibi dolci, conservati in acqua fresca, mescolati a sostanze stimolanti come melissa, fiori di buglossa e zucchero di "ottima qualità"... foschie e nebbie dovevano essere evitate, così come il vento del sud...». Qualcuno raccomandava di «esporsi al mattino presto al fumo di un fuoco beneodorante, ottenuto per esempio bruciando legna di quercia, frassino, olivo o mirto. L'aggiunta di balsamo, incenso o legno di sandalo alla fiamma ne rafforza l'azione disinfettante. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con sostanze dai profumi molto forti. La carne di montone castrato, vitello, capra, pernice, fagiano e pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce pericoloso.

Vino e birra venivano espressamente consigliati, mentre la frutta dolce, come ad esempio le pere – facilmente deperibili – doveva invece essere evitata...i cibi acidi erano considerati l'alimento ottimale, perché contrastavano la putrefazione...era consigliabile tenere in bocca bacche di alloro e di ginepro, o ancor meglio cortecce di larici, pini e abeti». La "peste nera" ebbe origine – molto probabilmente – nel nord della Cina, dove, «si raccontava nei porti del Mediterraneo, morivano da qualche tempo molte persone, in modo allarmante». La malattia si fece strada attraverso la "via della Seta", aumentando improvvisamente la velocità della sua diffusione. Bergdolt evidenzia, richiamando a tal proposito documentate tracce storiografiche, che «la fiorente attività commerciale sviluppatasi sotto il dominio mongolo favorì la mobilitàdiuomini eanimali,pulcidella peste incluse».

Il primo "focolaio europeo" si accese nell'autunno del 1346, in Crimea. Poi, attraverso i porti, si diffuse più a sud. Ed il primo Paese che venne pesantemente colpito dall'epidemia fu l'Italia.
«Ogni porto o centro di commercio del levante che veniva contagiato, essendo punto di partenza di linee marittime e di vie commerciali, funse da moltiplicatore della peste nera...
non appena i marinai scendevano a terra in una qualche località, ed entravano in contatto con delle persone, queste morivano... l'Italia fu travolta dalla peste in modo drammatico...la Sicilia fu la prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita... nell'ottobre del 1347 dodici galee genovesi raggiunsero il porto di Messina».

In breve «...Siracusa, Sciacca e Agrigento furono decimate... dalla Sicilia le navi della peste raggiunsero le città portuali della costa adriatica e del Mar Tirreno, prime fra tutte Venezia, Pisa e Genova... da qui si spinse negli Appennini e in Lombardia... nello stesso modo in cui l'epidemia aveva fatto strage di vite in Sicilia e nelle città portuali italiane, invase in pochissimo tempo anche la Toscana, la Campania, il Lazio... Milano, invece, fu incredibilmente risparmiata dalla catastrofe... a Pisa la peste durò dalla primavera fino al mese di settembre del 1348, e si seppellivano "fino a cinquecento uomini al giorno" ...a Venezia metà degli abitanti morirono...
a Padova un terzo della popolazione perse la vita... a Genova soltanto la settima parte degli abitanti riuscì a salvarsi...Roma fu raggiunta nell'estate del 1348.

La città di allora, pressoché spopolata in seguito all'esilio dei papi ad Avignone, perse all'incirca la metà dei suoi abitanti... la maggior parte delle località dell'Agro Romano furono infettate nel corso dell'anno». Similmente avvenne nel resto d'Europa. A Parigi – che prima dell'arrivo dell'epidemia contava 180.000 abitanti – in diciotto mesi morirono infatti quasi 50.000 persone. Ad Avignone, in sei settimane, 11.000. A Maiorca i decessi furono 30.000. A Coimbra a quanto pare morì il 90% degli abitanti. A Basilea i decessi furono 14.000. A Londra i contagi letali raggiunsero il 30-40% della popolazione complessiva (stimata in circa 50.000 abitanti). Nei Paesi scandinavi (probabilmente grazie al freddo, che limitava fortemente la virulenta vitalità delle pulci dei ratti), il contagio fu invece molto più limitato. Tuttavia alcune fonti parlano della decimazione che la peste causò presso la popolazione indigena della Groenlandia. La cosa più sorprendente fu che taluni villaggi, o alcune zone dell'Europa, "a macchia di leopardo", vennero inspiegabilmente risparmiate dall'epidemia.

Bergdolt ritiene che le cifre indicate dalle fonti storiografiche esistenti sull'argomento siano «sicuramente esagerate. Esse provano soltanto che le vittime della peste furono "innumerevoli", nel vero senso del termine. Stime realistiche si aggirano intorno a una percentuale che va dal trenta al cinquanta per cento della totalità della popolazione, circostanza che in realtà rappresentava un non indifferente taglio demografico». Le nefaste conseguenze della peste medievale non furono soltanto quelle legate alla morte degli sventurati che erano stati contagiati. Essa, infatti, come è facile immaginare, sconvolse le abitudini (personali e lavorative) delle persone; ed incise in maniera profonda sulla quantità (e sulla qualità) dei rapporti interpersonali. Anche quelli familiari. Scrive Bergdolt: «La sensazione di essere vittima della vendetta divina, ma anche la battuta d'arresto subita dal commercio, l'impotenza dell'ambiente circostante, la lacerazione dei vincoli familiari e la paura della morte, cambiarono in brevissimo tempo gli uomini... le persone, incontrandosi, provavano le une nei confronti delle altre, sentimenti di paura e di sfiducia».

Il notaio emiliano Giovanni da Bazzano, ad esempio, racconta, nei suoi scritti d'epoca che «i cristiani si evitavano a vicenda, come la lepre rifugge il leone, o l'uomo sano il lebbroso».
Il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani, invece, in una delle sue cronache, annota che «non di rado succedeva che i malati votati alla morte fossero chiusi nelle proprie case dai parenti e qui lasciati morire di fame». I rapporti tra gli uomini, dunque, si imbarbarirono e, come è agevole immaginare, chi mostrava i segni della malattia quasi sempre non poteva sperare nella compassione né nell'aiuto degli altri. Scrive Bergdolt, che «il fatto che l'orrore della vita quotidiana durante la peste abbia suscitato una particolare crudeltà e insensibilità, e sia stato addirittura la causa della fine della società fondata sulla solidarietà umana, è dimostrato da molti racconti di testimoni oculari. Boccaccio (nel Decamerone,ndr) racconta come i fiorentini si comportassero in modo estremamente egoistico... i cronisti descrivono in modo dettagliato come il senso della morale e della responsabilità sociale si andassero affievolendo».

Direttamente coinvolti da questa terribile situazione furono (ovviamente) soprattutto i medici ed i religiosi; i quali in più di qualche occasione si rifiutarono, per paura del contagio, di prestare la dovuta assistenza – sanitaria e spirituale – a coloro i quali erano stati infettati. Taluni approfittarono delle straordinarie circostanze per arricchirsi sulle spalle dei contagiati.
Accettando infatti di accorrere al capezzale dei malati solo in cambio di ingenti somme di denaro. Rileva Bergdolt: «Il problema era evidente: se i medici rifiutavano di prestare le proprie cure o si davano alla fuga erano considerati dei codardi. Se prestavano il loro aiuto, mettendo a rischio la loro stessa vita o occupandosi di casi senza speranza,venivano accusatidi essere avidi di denaro». Molti sacerdoti, tuttavia, «compirono coscienziosamente i propri doveri, e con coraggio amministrarono ai malati di peste, dovendo poi affrontare essi stessi la morte che, come insegnava l'esperienza, in un più o meno breve arco di tempo sarebbe sopraggiunta». La pandemia di peste nera cambiò anche le abitudini delle persone.

Persino quelle dei delinquenti! Scrive infatti l'autore del saggio, citando uno scritto dello storico veneziano Lorenzo de Monacis, che «a causa dei numerosi decessi, preziose suppellettili domestiche, denaro, oro e argento rimasero incustoditi nelle case abbandonate senza che venissero trafugate dai ladri, perché tutti erano come incredibilmente paralizzati, vittime del panico». Profondi cambiamenti si ebbero poi anche in ambito economico e sociale: «Decisivo fu il crollo demografico causato dall'epidemia... il capitale medio per persona ebbe un improvviso incremento. L'eredità materiale di coloro che erano morti in seguito alla peste andò ad accrescere la ricchezza di coloro che erano sopravvissuti». Il cronista fiorentino Matteo Villani annotò che «gli uomini, trovandosi pochi e abbondanti per l'eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come se state non fossono, si diedero alla più sconcia e disordinata vita che prima non avevano usata... e il minuto popolo, uomini e femmine, per la soverchia abbondanza che si trovavano delle cose, non volevano lavorare agli usati mestieri; e le più care e delicate vivande volevano per la loro vita, e si maritavano, vestendo le fanti e le vil femmine tutte le belle e le care robe delle onorevoli donne morte».

Questo comportamento, rileva argutamente Bergoldt, riflesse «la più grande redistribuzione di patrimonio avvenuta in così breve tempo...»; ciò determinò «un'ampia trasformazione sociale.
Iniziò l'ascesa del ceto medio...dalla Polonia all'Inghilterra, dalla Norvegia fino alla Sicilia, innumerevoli immobili e grandi proprietà terriere cambiarono padrone. Tutt'al più possono essere portati come paragone i cambiamenti verificatisi nel XX secolo nei territori in cui vigeva il sistema comunista». In conclusione, lo storico tedesco, evidenzia che «le conseguenze sociali ed economiche della peste degli anni 1348 1351 si osservarono anche nel corso del XV secolo. Naturalmente la vita economica nelle città era influenzata anche dalla tendenza, affermatasi nel periodo immediatamente successivo alla peste, a ricercare il piacere e il lusso.
Questa tendenza si mantenne per decenni... il patrimonio che spettava agli eredi non andava a finire in un'attività produttiva, ma serviva a piaceri personali. Da un punto di vista politico-economico, il capitale accumulato in seguito alla peste fu in massima parte sperperato». E questo perché «il curarsi del futuro sembrava senza senso a molti uomini del tempo».