Il 15 agosto del 1769 (e quindi esattamente 250 anni fa) nacque, ad Ajaccio, Napoleone Bonaparte. Molti studiosi lo definiscono come "il più grande stratega della storia" (Basil Liddel Hart), o "il più grande dei grandi maestri dell'arte della guerra" (Evgenij Tarle). Tuttavia la sua celebrità è dovuta anche a ragioni che non riguardano aspetti squisitamente bellici. Mano a mano che il generale corso portava avanti le sue mire espansionistiche, nella sua mente prese forma anche l'ambizioso progetto di riuscire a trasferire in Francia gli archivi storici più importanti degli stati che lui era riuscito ad annettere al suo impero, e ciò per riunire in un solo luogo tutte le principali testimonianze della civiltà umana. E infatti, a partire dal 1809, ordinò alle sue truppe ed ai suoi funzionari amministrativi di portare avanti una gigantesca opera di confisca di documenti, reperti, testimonianze opere d'arte ed oggetti, che avrebbero dovuto contribuire a creare il più grande archivio di sempre.

Su tale argomento è stato da poco pubblicato, a firma di Maria Pia Donato, intitolato "L'archivio del mondo – Quando Napoleone confiscò la storia", un interessante (ed impegnativo) saggio edito da Laterza (170 pagine). Nella bandella di copertina si legge che il libro «racconta di un'impresa titanica, forse la più folle tentata da Napoleone e da un impero in cerca di radici. Un grande sogno che nasceva dalla consapevolezza che chi possiede gli archivi, possiede la Storia. E chi possiede la Storia, controlla la visione del futuro». Tale giusta considerazione appare oggi più che mai attualissima. È la stessa autrice del saggio a spiegare e ricordare che l'idea di «possedere il sapere universale, accumulare in un solo luogo tutta l'informazione, ammassare dati su tutto e tutti, è stato un sogno ricorrente della società occidentale... e oggi, seduti al computer, l'utopia sembra realtà, un immenso archivio di conoscenze e informazioni accumulate nel tempo e nello spazio che abbiamo a portata di mano.

Un archivio che oltretutto appare uscito dall'orbita dello Stato, disponibile a tutti, non solo a funzionari autorizzati o a élite del censo e della cultura, come è stato per secoli... oggi gli "imperi" e le potenze politiche mondiali, in collaborazione o in competizione con i colossi commerciali che fanno funzionare le macchine ed elaborano i linguaggi informatici e gli algoritmi di ricerca, lottano per controllare l'enorme archivio immateriale dell'informazione e della conoscenza come ieri si facevano guerra per i documenti cartacei, le opere d'arte, i codici e i libri, che per la verità si contendono ancor oggi per il loro valore estetico e morale. Dal canto suo, la società civile, rivendica la propria memoria, come una volta resisteva al tentativo dello Stato centrale di accaparrarsi tutte le fonti del diritto e della storia, ed è una rivendicazione che le nuove tecnologie rendono al tempo stesso più efficace e più aleatoria... le tecnologie digitali, se da un lato pongono problemi di conservazione a lungo termine, sembrano offrire una risposta a problemi di deperimento e di accessibilità del materiale esistente, dargli nuova vita, e persino ampliare il pubblico dei documenti storici».

La Donato, nel suo dettagliatissimo saggio, offre una possibile spiegazione dell'ambiziosa idea progettata da Napoleone: «Egli era lettore avido di storie antiche e moderne, amava tracciare paralleli tra sé e i grandi del passato, e un disparato assortimento di personaggi compare nei suoi scritti, da Scipione l'Africano a Carlo V, da Clodoveo a Luigi XIV. Con il passare del tempo, anzi, sempre più spesso, fece appello alla storia per legittimare il suo potere, per confortare e amplificare la sua autorità, per plasmare la sua leggenda. Tra tutti, però, il riferimento storico più tenace fu Carlomagno».
L'autrice descrive poi la certosina opera di confisca ordinata dal grande generale corso, e puntualmente eseguita, dai suoi solerti funzionari, a Vienna, a Firenze, a Milano, a Bruxelles, a Torino, a Napoli, in Germania, nelle Fiandre, in Catalogna, a Valladolid, a Danzica, a Varsavia.

Ma soprattutto a Roma: «Alla fine del 1809, forte della vittoria contro la Quinta Coalizione, Napoleone decise che era tempo di finirla con il papato...Il 10 gennaio 1810 ordinò al generale Miollis di far imballare tutti gli archivi della Santa Sede e farli spedire in Francia sotto buona scorta...Tra il 23 ed il 24 gennaio dispose che tutte le carte e i documenti delle congregazioni e dei tribunali ecclesiastici inclusi gli archivi esistenti in Vaticano, oltre all'archivio segreto della Santa Sede» venissero inviate in Francia. La Donato descrive anche, con minuziosa meticolosità, le modalità di imballaggio e spedizione dei preziosi documenti: «Alla fine di gennaio erano pronte 1.740 casse. La tecnica fu accurata: le carte sciolte raccolte in pacchi legati e sigillati con l'indicazione sommaria del contenuto e dell'anno, avvolti insieme a volumi e registri in tela cerata, e sistemati in casse appositamente fabbricate.

Il tutto contrassegnato da serie alfanumeriche... mano a mano che i convogli arrivavano a Parigi, i faldoni erano tolti dalle casse, verificati, classificati, messi sulle mensole, etichettati e numerati secondo lo schema generale degli archivi dell'impero». Per fortuna, dopo la deposizione di Napoleone, quasi tutti i documenti confiscati ripresero la via del ritorno.
Tuttavia si trattò di un'operazione lunga, complessa, e, purtroppo, parziale. «Presero la via del ritorno i manoscritti orientali di Vienna, libri, gemme, cammei, i cavalli di San Marco, i grandi marmi e i codici del Vaticano, e una parte delle tele prelevate in Italia, nelle Fiandre, negli Stati tedeschi, in Spagna. Furono accolti al loro arrivo con feste, processioni, fuochi d'artificio ed esposizioni a Firenze, come a Colonia e a Berlino». Non tutto, ovviamente, funzionò. Molte opere, documenti, opere d'arte e reperti, vennero infatti perduti o trafugati, durante i viaggi di ritorno. O, più semplicemente, non vennero restituiti ai legittimi proprietari. Tanto è vero che nel corso dei decenni qualcuno iniziò a qualificare esplicitamente le spoliazioni francesi come un "crimine contro l'umanità".