Il 20 maggio del 1873, e quindi esattamente 150 anni fa, venne rilasciata dall'US Patent and Trademark Office (l'ufficio statunitense dei brevetti), la licenza n. 139121. In forza di quel documento i signori Jacob Davis e Levi Strauss furono autorizzati a produrre in esclusiva una tipologia di pantaloni da lavoro tenuti insieme – oltre che dalle tipiche cuciture di quella tipologia di capo di vestiario – anche da ingegnosi rivetti metallici, i quali avevano la funzione di renderli più pratici e robusti.

Quella semplice ma geniale invenzione costituì una vera e propria svolta nella storia dell'abbigliamento e del costume dell'intero pianeta, perché quel giorno, in pratica, vennero brevettati i "jeans". Per tutti coloro i quali volessero approfondire l'argomento, suggerisco vivamente la lettura di una splendida monografia a firma di Remo Guerrini, intitolata "Bleu de Gênes – Piccola storia illustrata del jeans", e pubblicata da De Ferrari Editore.

Il libro ci accompagna con estremo garbo dentro le origini, la nascita, lo sviluppo e lo straordinario successo di un capo oramai diffusissimo in tutto il mondo e del quale ogni anno se ne vendono circa tre miliardi e cinquecento milioni di esemplari!
La prima cosa che si apprende, leggendo il dettagliatissimo saggio, è che i "jeans" (termine che iniziò a prendere piede nel linguaggio comune soltanto nella seconda metà del secolo scorso), inizialmente si chiamavano "overalls", parola che letteralmente significa "indumento da lavoro". Il vocabolo "jeans" rappresenta niente altro che la colloquiale definizione del fustagno di origine genovese. Così come "denim" era quella utilizzata per indicare invece il tessuto proveniente da Nimes.

I jeans, come è noto, sono fatti soprattutto di cotone e, per realizzarne uno, ne servono almeno sette etti. Anche se può sembrare strano, non sono un indumento molto "green" (tanto è vero che è stato calcolato che, per riuscire a produrre un chilo di cotone, sono necessari circa 29.000 litri di acqua... e che ogni anno, per poter colorare di blu i nostri amati pantaloni, vengono prodotte diciassettemila tonnellate di indaco sintetico...).

Il viaggio che Guerrini ci offre all'interno della storia dell'abbigliamento "popolare" è straordinariamente affascinante. L'autore ci spiega infatti, ad esempio, il ruolo fondamentale assunto da Isaac Merritt Singer (l'inventore della moderna macchina da cucire) sulla vita di moltissime persone. Attraverso la sua geniale innovazione, che consentiva una produzione di massa a prezzi contenuti, «si riuscì a creare un vero e proprio sistema di taglie, in modo da moltiplicare i campioni e accontentare un numero più vasto di clienti già al primo approccio in negozio.

E, soprattutto, erano vestiti che costavano sempre meno. Questa vasta disponibilità di abbigliamento, in misure di ogni tipo, rese gli Stati Uniti – almeno a livello della gente comune – il Paese più elegante del mondo... Certo, i ricchi indossavano abiti con un taglio migliore e confezionati con stoffe più raffinate, ma per la prima volta tutte le classi sociali vestivano comunque allo stesso modo. Era la democracy of clothing, la democrazia dell'abbigliamento, che la macchina da cucire aveva contribuito a edificare».

Evidenzia poi Guerrini che «il miglior cliente della Singer Manufactoring Company sulla costa del Pacifico era un'azienda di San Francisco, che aveva acquistato diverse centinaia di macchine per i propri laboratori... Il titolare dell'azienda era emigrato dalla Germania, si chiamava Levi Strauss, e cuciva biancheria, tende e pantaloni in tela, in jeans e in denim». Il destino imprenditoriale di quell'intraprendente uomo d'affari di origine ebraica (che in verità era già abbastanza florido...) cambiò decisamente (e per di più in meglio) nel 1872, quando ricevette una lettera da uno dei suoi clienti, tale Jacob Davis, che faceva il sarto a Reno, nel Nevada, e che di solito cuciva giacche e calzoni da lavoro utilizzando i pesanti tessuti delle tende.

Davis, nel tentativo di risolvere il problema della frequente cedevolezza delle cuciture dei suoi capi (soprattutto quelle delle tasche e del cavallo), ebbe la brillante intuizione di rinforzarle con dei semplici rivetti di rame. Quell'ingegnosa soluzione sartoriale ebbe subito un grande successo, tanto è vero che molti colleghi della sua zona cominciarono ad imitarla. Egli decise pertanto di brevettare l'idea, ma non disponeva dei 68 dollari necessari a farlo; si rivolse allora a Levi Strauss, il quale intuì la portata dell'innovazione, e pagò la necessaria somma. Mettendosi per di più in società con lui.

Da quel momento in poi iniziò l'inarrestabile, trionfale cavalcata di un capo di abbigliamento che – come ben sappiamo – avrebbe letteralmente rivoluzionato la moda in tutto il mondo. Guerrini descrive benissimo la storia di questo indumento; storia che – se ci si pensa – va di pari passo con quella recente dell'intera umanità. Ed infatti egli acutamente osserva: «All'origine dei blue jeans ci sono cercatori d'oro e minatori, mandriani, operai, contadini, meccanici, ferrovieri e muratori.

Ci sono il lavoro manuale e pesante e la necessità di un indumento forte e protettivo. Ci sarebbe voluta la grande crisi del 1929 e una depressione economica tanto sconvolgente da cambiare lo stile di vita di milioni di persone, per trasformare overalls, dungaree, Union-All (o comunque li si voglia chiamare) in qualcosa di nuovo: il capo d'abbigliamento d'elezione per il tempo libero... Di quell'America immiserita (per non parlare del resto del mondo) il denim era quasi un'uniforme. La crisi colpiva tutti ovviamente, ma a farne le spese, a rappresentarne le vittime più visibili, erano le classi più umili, ferrovieri, contadini, falegnami, operai che erano rimasti senza soldi e senza lavoro. Tutta gente che, ormai, spesso non aveva che un solo abito: la propria tuta, la salopette o l'Union-All.

Tutta gente che, vestita di questo blu, finiva sulle pagine di Life, di Look, del Saturday Evening Post, immortalata dai grandi fotografi, in reportage che raccontavano gli eroismi della guerra quotidiana alla povertà. Il denim diventò effettivamente un simbolo e, per la prima volta, conobbe una sorta di nobiltà... Fu così, per esempio, che molti americani di New York e di Boston indossarono il loro primo paio di Levi's, che fino ad allora – e così sarebbe stato fino agli anni Cinquanta – non erano mai stati distribuiti a est del Mississippi».

Poi ci pensò il cinema ad alimentare il successo a stelle e strisce del jeans. Spiega infatti Guerrini: «Nel giro di pochi anni, centinaia di pellicole di successo, che avevano come protagonisti uomini perennemente in denim (pantaloni, giubbini, gilet, camicie), contribuirono a costruire quello che forse è il più grande dei miti americani: l'epopea western. Con la sua stoffa ufficiale: il jeans; anche se quello indossato dai cowboy cinematografici non era certo quello dei cowboy in carne ed ossa.

Con i suoi fronzoli, le impunture, i ricamini, le frange, gli argenti, i bottoni luccicanti, era completamente diverso dal robusto denim degli abiti da lavoro: il realismo in effetti avrebbe contagiato il cinema western solo dopo gli anni Sessanta». Ad accelerare la diffusione di questo versatile capo di abbigliamento furono, in verità, anche alcune innovazioni "tecnologiche" (si pensi, ad esempio, alla "sanforizzazione", procedimento che garantiva che il restringimento del tessuto, a seguito dei lavaggi, non avrebbe superato l'1%).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tale Edwin Morris (colui il quale lanciò sul mercato il famoso marchio "Wrangler") fece diventare i jeans i "pantaloni ufficiali" del rodeo americano, innovandoli con pratici tasconi ed una comoda zip. Poco alla volta, però, quel "rozzo" e comodo indumento tipicamente maschile finì per attirare le attenzioni anche del pubblico femminile.

Ma l'impulso decisivo alla popolarità di quel capo di abbigliamento avvenne per caso. Racconta Guerrini: «Nella primavera del 1951 il cantante e attore Bing Crosby era al vertice della popolarità... al termine di una battuta di caccia nei boschi della British Columbia, in Canada, gli capitò di presentarsi insieme con un amico in un hotel di Vancouver e di chiedere una camera. Niente da fare: il portiere li squadrò da capo a piedi e obiettò che, presentandosi in jeans, non si poteva pretendere di alloggiare in quell'albergo. L'equivoco fu presto superato grazie all'intervento di un fattorino, che aveva riconosciuto il crooner... L'episodio diventò però di pubblico dominio e il 30 giugno dello stesso anno il cantante ricevette un singolare omaggio da parte della Levi Strauss: un tuxedo (cioè uno smoking) doppiopetto confezionato su misura, in puro jeans blu scuro, con risvolti in azzurro e bottoni dello stesso rosso della red tab piazzata abitualmente sul retro dei calzoni.

La classica etichetta in pelle, più grande, cucita all'interno della giacca, diceva: "Attenzione: al personale di tutti gli hotel. Questa etichetta garantisce al suo portatore di essere convenientemente ricevuto e registrato, con cordialità e ospitalità, in ogni momento e in qualsiasi condizione. Rilasciato a Bing Crosby. Firmato: l'Associazione degli albergatori americani". Oggi quello smoking è esposto al Northeastern Nevada Museum, di Elko». Dopo di lui ci pensò Marlon Brando, attraverso la sua memorabile interpretazione nel film "Il selvaggio", ad alimentare una moda che ben presto si trasformò in mito. In quella pellicola il grande attore appariva infatti sempre vestito con un giubbotto di pelle nera, una t-shirt e dei jeans.

Più precisamente dei Levi's 501 button fly, e cioè con i bottoni, e non la cerniera lampo. Grazie all'indiscutibile fascino di un personaggio leggendario, quell'indumento così semplice (che era stato creato per essere soprattutto comodo, robusto, ed economico), diventò in breve tempo una vera e propria "divisa" per tutti i motociclisti del mondo; anche perché era il simbolo subliminale di una fascinosa virilità, che andava ostentata. Dopo Brando furono poi James Dean, Elvis Presley (che in realtà li odiava...) e Jack Kerouac a rendere i jeans un capo "di tendenza". Ricorda infatti opportunamente a tal riguardo l'autore della bella monografia: «Nel 1958 ormai il 90 per cento dei giovani americani indossava i jeans ovunque, tranne che – come scrisse un giornale in quel tempo – in chiesa e a letto. Presto in tutto il mondo occidentale sarebbe avvenuta la stessa cosa».

In una delle pubblicazioni dedicate alla storia della Levi's si legge che «nel 1960, per la prima volta, il termine overalls venne sostituito da jeans, sia nella pubblicità sia sulle confezioni. In passato avevamo avuto linee di abbigliamento definite jeans (come alcuni pantaloni in denim per ragazzi, negli anni Trenta), ma la nostra linea principale, i 501, cominciò a portare questo nuovo nome, blue jeans, proprio perché i teen ager avevano cominciato a chiamarli così. Non sappiamo perché avessero scelto questo termine, ma lo avevano fatto, e tutta l'industria andò loro dietro». Tuttavia fu ancora una volta il cinema che fornì l'impulso decisivo per far diventare quel capo di abbigliamento una vera e propria icona di stile.

Nel 1954 la bellissima ed elegantissima Grace Kelly, in una scena del celebre film di Alfred Hitchcock "La finestra sul cortile", appare in camicetta e blue jeans, così sancendo la straordinaria "elegante versatilità" di quel tipo di pantalone. Grazie a lei (e poi a Marilyn Monroe e Brigitte Bardot), il jeans divenne un vero e proprio capo "classico", adatto ad ogni circostanza. Ed infatti, ad esempio, grazie al concerto di Woodstock del 1969, esso acquisì la connotazione di simbolo di trasgressione sociale, culturale e sessuale. Di anticonformismo.

In Europa i primi jeans arrivarono negli anni cinquanta. In Italia trovarono un notevole ed involontario testimonial pubblicitario in Tex Willer, il famoso eroe dei fumetti creato da Gianluigi Bonelli ed Aurelio Galeppini. Fu tuttavia Elio Fiorucci a far fare il salto definitivo di quel capo di abbigliamento nel mondo della moda di "alta gamma". A lui dobbiamo infatti la creazione del "fashion jeans" e delle prime "jeanserie", luoghi che mescolavano abilmente raffinatezza e trasgressione, e che colpirono persino l'attenzione di Andy Warhol il quale una volta così annotò sul suo diario personale: «Sono andato da Fiorucci, è proprio un posto divertente, è tutto ciò che avrei sempre voluto...».

Ma il grande artista figurativo statunitense non è stato certo l'unico a rimanere colpito dalla straordinaria, visionaria capacità del celebre stilista italiano. Tanto è vero che – ricorda sempre Guerrini – il rocker americano Bruce Springsteen al quale era stato chiesto «quale fosse l'oggetto simbolo della sua personalità, egli rispose senza indugio: la mia chitarra e i miei jeans Fiorucci».

Le "grandi firme" hanno contribuito in maniera determinante a rendere il blue jeans un vero e proprio status symbol del costume moderno, prodotto commerciale che non solo è in grado di influenzare la moda e le tendenze, ma stimola anche costosissime campagne di marketing che coinvolgono tutto il pianeta. La ragione è semplice: il jeans è un indumento che è massicciamente utilizzato da uomini e donne di ogni età e parte del mondo, che vende sempre e ovunque, soprattutto tra i giovani.

Tanto è vero che è stato calcolato che nel mondo occidentale ogni adolescente ne acquista mediamente, ogni anno, tra gli otto ed i dodici... Siamo certi che i primi ad essere felici di questo incredibile ed inarrestabile successo sarebbero Levi Strauss e Jacob Davies, che la mattina del 20 maggio del 1873 depositarono fiduciosi quel semplice brevetto, mai immaginando la portata culturale, sociale ed economica che quella loro decisione avrebbe poi avuto. Ma siamo altrettanto certi che ad essere non meno felici dell'incredibile popolarità del jeans siano soprattutto i loro fortunati eredi...