Tra gli eventi storici più rilevanti che si sono verificati nel nostro Paese in tempi relativamente recenti c'è – senza alcun dubbio – la cosiddetta "Marcia su Roma": l'iniziativa politica che, nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre del 1922, e quindi esattamente cento anni fa, spalancò le porte all'avvento del fascismo e di fatto influì in modo determinante sulle sorti del XX secolo. Tale valutazione comparativa non appare affatto esagerata, tanto è vero che lo scrittore Emilio Lussu, nello splendido saggio che dedicò all'argomento, la definì come «uno degli avvenimenti più interessanti della storia politica dei tempi moderni».

Quella manifestazione eversiva fu un vero e proprio crocevia del Novecento, in quanto consentì l'improvvisa conquista del potere da parte di Benito Mussolini, determinò la fine dello stato liberale e rappresentò l'inizio del "ventennio". Accadimenti che avrebbero dapprima condotto l'Italia nel buio della dittatura, e poi l'avrebbero trascinata nell'abisso della Seconda Guerra Mondiale. Le radici storiche del fascismo sono molteplici, e vanno individuate nel primo dopoguerra. Il conflitto mondiale aveva infatti lasciato ferite profonde in molti Paesi europei. In Italia, per di più, si era fatto largo un diffuso malcontento, perché le condizioni che le erano state riservate dai trattati di pace erano considerate troppo penalizzanti.

Tale latente rancore aveva finito per alimentare un crescente sentimento patriottico, che dapprima era sfociato in un "barocco dannunzianesimo", e poi aveva costituito il fertile terreno per la nascita e lo sviluppo dell'ideologia fascista. Lo storico Paolo Alatri così sintetizzò le ragioni dell'avvento e dell'affermazione, sulla scena politica italiana, di quel nuovo movimento: «Nello studio del fascismo si possono individuare due grandi correnti critiche e storiografiche: una che fa di esso null'altro che un fenomeno dell'insufficienza dello Stato unitario italiano, e lo colloca nella prospettiva del cosiddetto "carattere degli italiani'"; l'altra che, ponendosi su un terreno puramente classista, lo considera come espressione non soltanto italiana, ma europea e mondiale, di una particolare fase della lotta tra capitalismo e proletariato. L'una e l'altra hanno validi argomenti su cui poggiare. Il fascismo come fatto politico specifico nacque in Italia, tanto è vero che il nostro Paese attrasse per questo l'attenzione di tutto il mondo, e tutti i conservatori guardarono a Mussolini come a un grande uomo, allo stesso modo che tutti i rivoluzionari del mondo lo assunsero ad esempio di dittatore reazionario; ma dall'Italia divenne in seguito "merce di esportazione", perché non solo in Germania, ma in molti altri Paesi europei ed extraeuropei, furono realizzati regimi del tutto analoghi a quello mussoliniano».

Quali che furono le radici storiche, politiche, sociali ed economiche del fascismo, quello che è indubbio è che nel 1922 la figura di Mussolini si era fatta oramai largo nel panorama italiano; cosa che lo aveva indotto a pretendere sempre maggiore considerazione, per sé e per la sua visione ideologica; tanto è vero che sul "Corriere della Sera", l'8 agosto di quell'anno, si poteva leggere: «Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel Paese...».

Questa crescente consapevolezza, ed il fatto che la situazione politica di quello specifico momento storico era particolarmente fluida e complessa, suggerì a Mussolini di rompere gli indugi ed "attaccare" il cuore del sistema e delle istituzioni, utilizzando l'appariscente strumento di un'eclatante manifestazione popolare.
L'11 di agosto, dalle colonne de "Il Mattino", il futuro dittatore così aveva risposto con molta determinazione a chi lo aveva intervistato: «La marcia su Roma è in atto... che il Fascismo voglia diventare Stato è certissimo, ma non è altrettanto certo che, per raggiungere tale obbiettivo, si imponga il colpo di Stato...».

A tal proposito osservò acutamente lo storico fiorentino Giampiero Carocci: «Mussolini usò contemporaneamente le armi legali e quelle illegali, il parlamento e lo squadrismo. Con le armi legali rassicurava, con quelle illegali colpiva... ciò gli serviva, fra l'altro, per presentarsi agli occhi del ceto politico tradizionale come l'unico capace di incanalare il fascismo nella legalità...». Ed infatti, tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre di quell'anno, le azioni violente dei suoi seguaci si moltiplicarono in tutta Italia. Tale situazione cominciò a preoccupare molti, ma non tutti. Tanto è vero che Antonio Salandra aveva pubblicamente ostentato un'inappropriata tranquillità, escludendo il rischio di una dittatura; e questo perché, secondo lui, «mancava l'uomo, mancava il dittatore»...

In pochi, a dire il vero, si resero conto del pericolo che stava correndo la fragile democrazia, condita in "salsa sabauda", che all'epoca vigeva nel nostro paese; più di qualcuno, tra quelli che contavano a livello politico, coltivava infatti la speranza e la convinzione di poter riuscire a neutralizzare le brame di potere dei fascisti, e di stemperare i loro eccessi violenti, rendendoli parte del sistema, assimilandoli, istituzionalizzandoli.

Mussolini seppe abilmente approfittare di questo imbelle prolungato impasse, prospettando la sua entrata nel governo come la soluzione che meglio di altre avrebbe potuto far uscire l'Italia dalla crisi. L'unico che (assieme al re) avrebbe forse potuto opporsi alla svolta politica ed istituzionale che di li a poco si sarebbe verificata, era Giovanni Giolitti. Il quale – evidenzia Alatri – «aveva generato l'illusione di poter ancora dominare i fascisti con la sua abilità ed esperienza, e soprattutto quella di poter depurare quel movimento politico di ogni sua carica antiliberale e anticostituzionale, sino a portarlo, sotto la propria direzione, alla responsabilità di governo».

Tuttavia, il pur navigato politico piemontese, probabilmente anche a causa dell'età (all'epoca aveva infatti ottanta anni), non aveva più la forza per opporsi adeguatamente all'onda rivoluzionaria che si stava profilando all'orizzonte. E il capo del governo allora in carica, Luigi Facta, non era dotato di sufficiente personalità per riuscire ad impedire il corso degli eventi.
Mussolini si rese conto dell'incredibile opportunità che la storia gli stava consegnando su un piatto d'argento. Tanto è vero che il 25 ottobre, a Napoli, in occasione del celebre discorso che avrebbe poi dato di fatto inizio alla famosa marcia, urlò alla folla che lo acclamava: «Vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci danno il governo, o ce lo prenderemo, calando su Roma».

Il dado era tratto. In un primo momento, a dire il vero, la "Marcia su Roma" non doveva avere le caratteristiche di un vero e proprio "atto rivoluzionario"; essa era stata infatti originariamente ideata ed immaginata soltanto come lo strumento "simbolico" più opportuno ed efficace per aiutare il partito fascista (che all'epoca era ancora una forza politica tutto sommato piuttosto marginale) a farsi largo nel cuore del potere esecutivo. Furono, come detto, la mollezza del re e del governo allora in carica, unita ad una diffusa e crescente volontà popolare di voler cambiare lo stato delle cose, e ad un'oggettiva capacità strategica del futuro dittatore, a trasformare in maniera imprevista una iniziativa politica – peraltro piuttosto disorganizzata – in un evento che cambiò per sempre il corso della storia italiana; e non solo di quella. Ammetterà infatti a tal proposito Roberto Farinacci: «Le camicie nere, se pure ne avessero avuto la volontà, non avevano armi sufficienti per combattere l'esercito italiano che avesse avuto l'ordine e la volontà di combattere». Cosa che non avvenne.

Dalle parole "programmatiche" di Mussolini, ad ogni buon conto, scaturì un sostanziale ultimatum alle dimissioni del governo di Luigi Facta. Il quale, messo alle strette, confermò però tutta la sua inadeguatezza tardando anche a spedire a Vittorio Emanuele il telegramma con il quale lo invitava ad accorrere urgentemente nella capitale per gestire direttamente la crisi. Sarebbe servito, in quel momento, prendere una decisione risoluta, e cioè scegliere (e al più presto) il nuovo capo del governo. Possibilmente un uomo di forte personalità e carisma, capace di arginare la brama di potere dei fascisti. Ma così non fu. Quella scellerata inerzia fu determinante per le sorti del nostro Paese, e del futuro del mondo.

Evidenzia a tal riguardo Alatri: «Mussolini sapeva come trattare i suoi polli: continuava a tenere relazioni con Giolitti, con Salandra e con Orlando contemporaneamente. Per lui si trattava soltanto di guadagnare tempo finché scattasse il meccanismo della rivolta armata... e la macchina di guerra scattò nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, nel momento in cui la destra riuscì a metter fuori combattimento il governo, riducendolo alle dimissioni... alle cinque del mattino il Consiglio dei ministri si riunì al completo al Viminale.
All'unanimità, il gabinetto, come risulta dal verbale della riunione, decise di proclamare lo stato d'assedio... alle prime luci dell'alba il presidente del Consiglio si recò dal re per sottoporre alla sua firma il decreto, già diramato del resto dalle autorità periferiche».

Nel frattempo, scrive lo storico Guido Gerosa, «l'avanzata fascista continuava nell'entusiasmo e nel delirio, ma anche nel caos più totale. Mancava ogni organizzazione tattica e logistica, mancavano i collegamenti. Verso la capitale stava avanzando una pittoresca armata Brancaleone, in grande difficoltà... la città era difesa da 28.400 soldati dell'esercito... secondo i calcoli più attendibili degli storici l'entità numerica delle colonne fasciste in marcia era di 25/30.000 uomini, dotati però di un mediocre armamento: la maggior parte aveva solo rivoltelle, o addirittura manganelli (spesso ricavati da manici di vecchi ombrelli)... se l'esercito risponderà alla violenza, la marcia sarà destinata al fallimento».

Sarebbe bastato, quindi, che il re avesse firmato il decreto dello stato di assedio. Si chiede a tal riguardo sempre Gerosa: «Perché Vittorio Emanuele negò il suo assenso allo stato di assedio? Anni dopo egli sosterrà di avere dato il potere a "quella gente" perché i suoi collaboratori, sia politici che militari, lo avevano abbandonato; ma, nella decisione, devono aver giocato altri motivi: forse aveva concluso un accordo con Mussolini, forse temeva che i fascisti gli rapissero i figli, ma soprattutto era preoccupato che il cugino duca d'Aosta si facesse elevare dai golpisti alla dignità reale».

Carocci offre invece una diversa visione dei fatti: «Nel corso del 1922 l'instabilità governativa e l'abulia delle leve di comando dello stato raggiunsero il colmo. Ciò era dovuto ormai unicamente alla presenza minacciosa dell'illegalismo fascista. Per neutralizzarlo appariva sempre più necessario che il fascismo fosse chiamato a dividere le responsabilità di governo. In ottobre fu offerto a Mussolini di partecipare, con alcuni dei suoi, ad un nuovo esecutivo, che sarebbe stato presieduto da Giolitti, ovvero da Facta (presidente in carica), ovvero da Salandra. Mussolini, forte anche dell'appoggio dell'alta borghesia milanese, finì col rifiutare. Malgrado lo scarso seguito che aveva in parlamento giudicò infatti che poteva pretendere di più. Il governo l'avrebbe fatto lui. Questa fu la ragione della "Marcia su Roma"... essa, come l'intervento del 1915, fu un colpo di forza contro la maggioranza parlamentare, che sarebbe fallito se il re vi si fosse opposto. Ma il re, come già nel 1915, reputò opportuno non opporsi. Egli aveva scarsa fiducia nel parlamento, temeva i socialisti e detestava - da buon anticlericale - i popolari. Personalmente, il re, così borghese e privo di retorica, non sembrava fatto per intendersi con Mussolini, ma temeva di averlo nemico...negli anni e nei mesi precedenti, scartata l'eventualità di una dittatura militare, aveva finito col puntare tutto sul vecchio Giolitti. Fallito Giolitti, la soluzione Mussolini gli apparve come quella che meglio sarebbe stata capace di dare un assetto al paese, conteso nel dopoguerra, come non mai, dai nemici dello stato liberale: i preti, i socialisti, i neri e i rossi».

Una volta che apprese che il re si era rifiutato di firmare il decreto di stato di assedio, Mussolini comprese perfettamente di avere la situazione in pugno; e volle provare a stravincere. Tanto è vero che non solo rifiutò di entrare a far parte di un possibile, prossimo "governo Salandra", ma chiese anche (ed ottenne) da Vittorio Emanuele, l'incarico di formare un nuovo esecutivo. Già sul treno che lo portava da Milano a Roma rese la sua prima intervista da "Primo Ministro in pectore", e disse: «Il nostro movimento non è antioperaio; non è contro le masse. I diritti del lavoro, oggi che passiamo al governo dello Stato, saranno i più rispettati ed ascoltati»...

Alle 11.15 del 30 ottobre si presentò al Quirinale, dove incontrò il sovrano. Poche ore dopo presentò la lista dei ministri: alcuni dei quali erano esponenti dei popolari, dei liberali e dei democratici; anche se, ovviamente, i ministeri chiave erano affidati a fascisti. Fu il primo atto del cambiamento di regime. L'inizio della fine. Così commenta Gerosa: Mussolini «ha coronato la sua azione violenta con un capolavoro di abilità tattica, organizzando un ministero pseudocostituzionale, formalmente in regola con la legalità... avendo arruolato di colpo, sotto le sue bandiere, con un'abile politica di compromesso, l'esercito, l'industria, gli agrari, la burocrazia, l'alta finanza, ha "fascitizzato" lo Stato, e ha creato un solido intreccio di alleanze che sopravviveranno fino al crollo del fascismo, e, in alcuni casi, persino dopo. Indubbiamente un capolavoro politico. Dimostrando ai grandi gruppi di potere dello Stato, e persino alla Chiesa, che il suo movimento rappresenta la più efficace difesa del capitalismo e della borghesia contro i sovversivi, Mussolini crea le solide premesse di un ventennio di dominio». Che purtroppo condusse l'Italia alla scellerata alleanza con Adolf Hitler ed alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale.