Ci sono malattie che ti consumano l'anima, oltre che il corpo. Perché, pur lasciandoti lucido, annientano la tua autonomia, accompagnandoti lentamente, e con vile crudeltà, verso la fine. La sclerosi laterale amiotrofica è certamente una di queste. Posso dirlo con cognizione di causa perché diversi anni fa un mio caro parente venne colpito da questa terribile patologia. Il caso volle che lo andassi a trovare la sera prima della sua morte. Ebbe molto piacere a rivedermi, ma mi confessò con un filo di voce, steso sul letto, in posizione fetale, che il dolore che provava era insopportabile. Percepii distintamente la fragilità della mia impotenza di fronte al suo male, ed ebbi l'ennesima conferma che una delle cose più brutte della condizione umana è quella di non poter (quasi mai) scegliere il modo in cui terminare l'esistenza terrena. Anche al fine di onorare il suo ricordo mi sono avvicinato volentieri alla lettura di un piccolo libro da poco pubblicato da "La nave di Teseo", intitolato "Spiare la prima persona" (101 pagine), e scritto da Sam Shepard; attore, drammaturgo, scrittore e sceneggiatore statunitense scomparso, proprio a causa della SLA, nel 2017.

Si tratta di una specie di diario intimo, di una sorta di confessione letteraria mediante la quale l'autore (che vinse il Premio Pulitzer nel 1979) ha provato a "fotografare", attraverso ricordi, aneddoti, sensazioni, sogni ed incubi, l'insorgenza e poi la drammatica, inarrestabile evoluzione della sua malattia. La prima stesura del libro risale al 2016. E dato che già all'epoca Shepard non riusciva più a lavorare utilizzando la macchina da scrivere, fu redatta a mano. Quando gli risultò difficile utilizzare anche questo metodo, decise di registrare le sue idee, affidando la trascrizione ai familiari. Negli ultimi giorni, quando anche questo si rivelò impossibile, Shepard dettò le pagine conclusive. I suoi figli decisero di pubblicare il libro – postumo –per rendere il giusto omaggio allo sforzo sovrumano che il padre aveva compiuto per riuscire a completarlo. Il volume comincia con uno struggente ricordo dei primi momenti di consapevolezza della gravità della condizione clinica che affliggeva Shepard: «Mi hanno fatto tutti questi esami. In mezzo al deserto. Il deserto dipinto. Terra di apache. Terra di saguaro. Parlo di esami del sangue, certo. Esami di ogni tipo per misurare i miei globuli bianchi, i miei globuli rossi, e il rapporto tra i primi e i secondi. Poi mi hanno esaminato la colonna vertebrale. Me ne hanno fatto anche una lombare. E risonanze magnetiche. Tubi per ispezionare tutto il mio corpo e cogliere eventuali paralisi in qualche osso o muscolo. Sezioni trasversali, a spicchi. Radiografie. Fotografie spettrali. E hanno osservato il decadimento, e hanno osservato tutto l'osservabile senza arrivare a una risposta finché uno di loro, credo un neurochirurgo, mi ha iniettato delle scosse elettriche esplorative con degli aghi d'acciaio.

Me le ha sparate in entrambe le braccia; all'interno passava la corrente e io sentivo queste scosse. È stato lui a diagnosticare che qualcosa non andava. E io gli ho detto: grazie, lo so anch'io che c'è qualcosa che non va.
Perché credete che io sia qui? Lui mi ha risposto con uno sguardo vacuo». Il libro, tuttavia, non è affatto un semplice resoconto dell'aggravamento delle sue condizioni di salute. Anzi, quasi sempre, quella maledetta sindrome rimane sullo sfondo, e non fa altro che sollecitare la "cattura", da parte dell'autore, di emozioni, immagini, pensieri, parole e sensazioni («C'è questo fatto, nel dopo. Che non sai cosa verrà. Non sai come andranno a posto tutti i sospesi. Qualcosa succederà di certo, ma non sai cosa...»). Attraverso una prosa tagliente, lapidaria, Shepard ci offre un bilancio spassionato della sua esistenza, offrendosi spesso "nudo" al giudizio dei suoi cari, e dei lettori («Non sto cercando di dimostrarvi niente. Non sto cercando di dimostrarvi che ero il padre che credevate fossi quando eravate bambini. Ho fatto degli errori, ma non ho idea di quali siano stati. E non ho mai desiderato ricominciare da capo»). A colpire, sovente, sono le riflessioni di un uomo che percepisce perfettamente che la vita sta sfuggendogli di mano, e che coglie le sfumature emotive della sua fragile condizione: «Non vuoi crederci. Noti la natura progressiva delle cose. Le cose decadono. Noti come sono diverse. In certi momenti non posso fare a meno di pensare al passato. Lo so che il nostro posto è il presente. È sempre stato così.

So che delle persone molto sagge mi hanno raccomandato di stare il più possibile nel presente, ma a volte è il passato a presentarsi. Il passato non arriva tutto intero. Arriva sempre a pezzi. Di fatto arriva spezzettato. Si presenta come se fosse stato vissuto in frammenti...è il presente che crea i ricordi. È quello che crea il passato». A catturare il lettore sono anche le descrizioni di luoghi, eventi, e scorci di vita. Che spesso sembrano seguire il flusso nervoso e malinconico di pensieri ed immagini, regalando non di rado pagine di intensa emotività: «Lungo la strada c'è un posto che mi ha sempre trasmesso un senso di pace, non so perché. Dietro ha un pontile. Il pontile dà verso il Pacifico. Il pontile cigola e scricchiola. A volte quando una macchina lo attraversa rintrona e rimbomba. Il legno vibra. La sabbia copre il marciapiede. Sabbia ventata dalla spiaggia. Surfisti dodicenni, forse tredicenni, rincasano al crepuscolo con le tavole sottobraccio. In bermuda, i capelli oleosi e coperti di sabbia. Seguiti da qualche cagnolino. Cagnolini di razza imprecisata. I pellicani si appollaiano al pontile. I gabbiani calano in picchiata. I piro-piro ronzano e cantano e danzano la loro piccola danza. Le alghe sono fradicie. Lontano, due persone in costume si alzano dalla spiaggia ripiegando una grossa spugna arancione. Gli scoiattoli corrono al riparo. Il sole tramonta sul Pacifico». Così come la vita, purtroppo, ha fatto sugli occhi del suo sfortunato autore.