Una riflessione che si proietta all’esterno, attraverso ogni forma possibile. Questa è la concezione alla base della creatività di Luca Grossi, artista di Arce, che fin da piccolissimo ha cercato il modo migliore per rappresentare la sua visione delle cose. Dopo una formazione con il maestro Marco D’Emilia, il giovane pittore ha proseguito questo percorso da autodidatta.

Quando hai scoperto il mondo dell’arte?
«Direi nell’infanzia. Fin da bambino ho cercato in me la radice della mia passione. Questa voglia di creare si è palesata quando cercavo di costruire dei giocattoli e da lì, col tempo, si è evoluta».

Quale forma d’arte prediligi?
«Ho sempre prediletto la pittura, ma più come strumento di ricerca interiore. Con questa ho iniziato ad approcciarmi all’arte, ma sono sempre stato legato al disegno e all’assemblaggio. Lavorare con più materiali mi dà la possibilità di ampliare l’opera attraverso la sperimentazione. Sono una persona che fa poche mostre, tendo più a lavorare in studio. L’esposizione conta fino a un certo punto, quello che veramente importa è la passione che investo nel creare. “Uscire” significa difendere quello che faccio».

A cosa ti ispiri per creare?
«Sono sempre stato legato a temi inerenti alla ricerca della verità. A volte alcune le viviamo in maniera talmente sistematica che diventano la nostra quotidianità. La mia attività artistica risiede anche nel capire che cosa vivo giorno per giorno. Spesso ho trattato temi religiosi perché fin da bambino vedevo l’incoerenza tra le cose che dicevano gli adulti e quello che poi facevano».

In una delle tue opere affronti la questione del genocidio armeno: perché?
«Perché chi l’ha commesso non l’ha riconosciuto. Succede di sbagliare ma non ammetterlo è inaccettabile. Se ancora oggi capitano episodi del genere significa che c’è qualcosa di molto marcio dentro di noi. La continua persecuzione dei cristiani, la lotta tra Occidente e Oriente: parliamo di evoluzione ma tante cose non cambiano. Oggi si è globalizzato tutto così in fretta che non si capisce più niente».

Com’è il tuo rapporto con la provincia?
«La mia prima vera esposizione l’ho fatta a Frosinone, ovvero la collettiva “Mother of sin”. Ci sono state anche altre mostre in provincia, ma non sono state esperienze significative. Un momento molto importante per me, però, è stata l’esposizione di alcuni disegni a china a Isola del Liri su Pasolini, personaggio fondamentale».

Attualmente a cosa stai lavorando?
«A breve inaugureremo una mostra a Torino, curata da Marco Colombo e Francesca Rossini. Inoltre sto lavorando per una mostra in Macedonia con istallazioni».

Chi ha segnato il tuo percorso?
«Sono tantissime le influenze personali, anche molto forti. Tra gli artisti che mi hanno segnato maggiormente ci sono Kiefer, Bolsanki, Goya, Lopez Garcia, Dureer... Quello che fanno gli altri mi serve per capire che non sono solo ma la mia fonte di ispirazione primaria sono io. Il mio modo di fare si sta ispirando al tempo, al passare e al divenire delle cose».

Un consiglio che vorresti dare a chi osserva le tue opere?
«Una cosa che cerco di fare è risvegliare un po’ le coscienze, mi sembra che siamo un po’ tutti addormentati o storditi. La gente è distratta, le generazioni più giovani sono sempre in continuo lamento, ma senza concludere nulla. Guardare l’arte deve permettere di ascoltare quello che parla dentro di te. Quando non senti più niente forse hai perso te stesso. Personalmente quando osservo un’opera d’arte cerco di sentire, più che guardare».

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