Sono le 10.55. Intorno a noi c’è la solita routine di un sabato come tanti altri, traffico e gente che raggiunge i negozi vicini per la prima corsa ai regali di Natale. Potrebbe sembrare un quartiere come tanti altri, con anziani che si ritrovano a chiacchierare sotto i gazebo, giovani che passeggiano con i cani o fanno jogging, eppure dietro quella velata e innocente apparenza si nasconde una zona che ha bisogno di rinascere, di essere ricordata non come la zona del “Casermone” ma il quartiere Selva Piana. Ha bisogno di “schiacciare” il dramma della droga, della sopraffazione.

Ieri sembrava una giornata tranquilla, e pensare che solo tre giorni prima un esercito, tra polizia e carabinieri, ha smantellato un’altra organizzazione di spacciatori in quello che viene definita la Scampia di Frosinone. Davanti ai nostri occhi il Casermone, una struttura che da tutti, di generazione in generazione, viene vista come un luogo da cui stare lontano. Eppure lì vivono anche persone che con quelle realtà non c’entrano nulla. Ma preferiscono far finta di niente, non per omertà, ma perché da anni è diventato “normalità”.

Non molto lontano da quella infinità di palazzine in cemento armato c’è una parrocchia, c’è una chiesa: Santa Maria Goretti. E proprio lì sono entrati spesso il dolore, la paura, l’angoscia, il terrore di madri e padri di famiglia preoccupati per i loro figli. Madri spaventate, preoccupate. Che pregano, cercano conforto, aiuto. In quell’oceano di uomini, ma anche di donne finite nel tunnel delle sostanze stupefacenti e nella rete di chi mette su organizzazioni criminali, c’è anche chi tenta di trovare la forza e dire «ho bisogno di essere aiutato, ma ce la farò».

Queste e tante altre storie, che pensiamo siano lontane dalle nostre comunità, sono affrontate da anni dal vice parroco di Santa Maria Goretti, don Dino Mazzoli. Come tanti cittadini anche lui, nella notte del 7 dicembre, è stato svegliato dall’arrivo delle pattuglie e dai due elicotteri che volavano nei cieli di Frosinone. E quella notte, quando sono stati sequestrati armi, droga, soldi e documenti, don Dino era a due passi dal Casermone, nella stanza in cui dorme, nella parrocchia. Ci ha accolti nel suo appartamento. Da una finestra si scorgeva quella palazzina, lunga quanto una strada.

Possiamo paragonare il quartiere a quello di “Scampia”?
«Da quello che è emerso dalle ultime indagini e da quello che si è visto in televisione e letto sui giornali, c’erano le stesse dinamiche, le stesse strutture. Questo dipende tanto anche dagli anni che sono trascorsi: il quartiere è stato completamente abbandonato. È considerato terreno perso dalle istituzioni, dalle amministrazioni, ecco perché si è arrivati ad essere il centro di distribuzione della droga del Lazio sud. Questo ha fatto sì che si potesse costruire questo impero».

Cosa si potrebbe fare?
«Intanto dire di esserci è già importante. Ad esempio abbiamo apprezzato molto che il sindaco abbia messo un gazebo per gli anziani. È stata avvertita molto la vicinanza e non lo distruggono, ne tengono cura perché sanno che è stato un dono. Il bene comune qui viene tenuto fortemente in considerazione. Però di quale bene comune parliamo alla fine? Non c’è nulla. Il quartiere è degradato. Ma qualcuno ha mai fatto qualcosa per renderlo migliore? La parrocchia si impegna, ma non è facile».

Cosa è cambiato dal suo arrivo cinque anni fa?
«I volti della gente. Però la struttura generale è rimasta sempre la stessa, con i problemi economici, la disoccupazione. Su dieci famiglie otto non lavorano e questo determina anche quello che è accaduto. Ovviamente non voglio giustificarli. È grave ciò che fanno, ma credo anche che sia frutto della disperazione: o quello o niente. Poi il guadagno facile, le situazioni economiche favorevoli, hanno fatto sì che diventasse un mercato a tutti gli effetti. Siamo presenti per quanto possibile, per venire incontro alle famiglie che hanno perso tutto, aiutando i giovani, coinvolgendoli in iniziative, ma non possiamo fare molto di più. A volte ci sentiamo impotenti».

Cosa vuole dire alle madri o moglie degli arrestati?
«Che la parrocchia c’è. Tante famiglie mi hanno chiesto aiuto. Spero che chi ha sbagliato si renda conto».

E alla comunità?
«Ho letto cose bruttissime; giudicare è la cosa più semplice. È giusto che chi ha sbagliato debba pagare, però giudicare non spetta a noi, ci penserà la legge».

I pregiudizi?
«Sono di chi non abita qui, ma il quartiere non è solo questo, ci sono realtà diverse, una zona che può rinascere. Ma serve l’aiuto di tutti».