Nessuno sconto. Nove anni all’uomo accusato dalla convivente di aver abusato delle sue figlie minori. Ieri, dopo la discussione nella quale il pubblico ministero Barbara Trotta aveva chiesto al tribunale di Frosinone di condannare l’imputato, 45 anni, slavo, a dieci anni di reclusione, la sentenza. Il collegio presieduto dal giudice Marina Stirpe (a latere Farinella e Venarubea) alla fine gli ha inflitto un anno in meno rispetto alle richieste dell’accusa. Disposta anche una provvisionale di ventimila euro per ciascuna delle parti offese (rappresentate dall’avvocato Gianpio Papa) nonché l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il risarcimento danni sarà stabilito in separata sede. Dal canto suo, per l’imputato, l’avvocato Elio Rossi, ha preannunciato ricorso in appello.

La tesi portata avanti dalla procura, nonostante l’uomo, sempre presente in aula, si sia difeso con forza negando ogni accusa, alla fine è risultata vincente. La violenze sessuali si sarebbero protratte per sette anni, dal 2007 fino al 2014. Ma soprattutto i fatti sarebbero avvenuti nella casa di famiglia dove l’imputato che, in Italia si era rifatto una vita sotto falso nome perché inseguito da una sentenza di condanna a cinque anni nel suo paese d’origine, viveva con la sua compagna. Eppure alla fine la storia era venuta a galla e l’uomo era finito in manette. Prima per scontare la vecchia pena e poi a seguito dell’ordinanza che la procura di Frosinone aveva ottenuto nei suoi confronti dopo la denuncia presentata dalla sua ex compagna. Lei ha sostenuto che i fatti sarebbero avvenuti quando mancava da casa. E, una volta scoperto tutto, ha immediatamente presentato una denuncia ai carabinieri. Gli stessi che all’uomo hanno notificato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere lo scorso maggio.

Una vita fin lì normale. Senza destare l’attenzione delle forze dell’ordine, anche per quel vecchio precedente che da un momento all’altro poteva tornare d’attualità. Un lavoro regolare come tanti stranieri in cerca di una vita migliore in Italia. Eppure, almeno stando alla ricostruzione fatta in tribunale, quella vita apparentemente irreprensibile nascondeva qualcosa.

La difesa aveva provato in tutti i modi a ribaltare il verdetto, chiedendo anche una perizia psichiatrica che il tribunale ha ritenuto di non dover concedere. La richiesta era stata motivata con i problemi psichici dello slavo, che, in carcere, ha anche tentato il suicidio, compiuto atti autolesionistici e avviato uno sciopero della fame. L’imputato, sentito dal collegio giudicante nella precedente udienza, ha scelto di sottoporsi alle domande del proprio difensore. Ha provato a discolparsi dalle accuse che le parti offese hanno confermato in aula e che hanno circostanziato. A suo dire tutto sarebbe nato da un rimprovero alla figlia della convivente per aver maltrattato il proprio figlio, avuto da un’altra relazione. Il 45enne, in aula, aveva ricordato che a seguito della denuncia venne fuori il suo vero nome e la sua storia. Ma la sua versione, come era accaduto quando in carcere si era fatto interrogare, non ha convinto il tribunale.