Essere minacciato da un detenuto, per un agente della penitenziaria, deve essere un fatto anche abbastanza frequente, ma se a minacciare di morte è un capo clan dei Casamonica, la vicenda assume connotati di pericolosità ben diversa. Lo sa bene un agente cepranese della Polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Regina Coeli, a Roma. La sua posizione adesso è al vaglio delle autorità dato che, per la sua sicurezza personale, si sta valutando di trasferirlo in un altro istituto. Una vicenda sulla quale non vengono resi noti dettagli, ma la minaccia esplicitamente espressa dall’esponente della pericolosa famiglia Rom, particolarmente nota nella Capitale per legami fortissimi con imprenditoria e politica, è ritenuta particolarmente attendibile. Non si conosce, quindi, ma poco importa, il motivo di quella minaccia; se, cioè, l’agente si sia rifiutato di fare qualche favore illegale o cos’altro, fatto sta che il suo servizio di agente potrebbe andare a svolgerlo da qualche altra parte, questo, lo ripetiamo, non per sue colpe, ma esclusivamente per ragioni legate alla sua sicurezza.

Un particolare sottolineato anche da Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Fns Cisl Lazio. «Quando ci sono episodi simili si intraprendono tutte le iniziative per tutelare l’incolumità del personale - spiega il sindacalista - Non conosco i dettagli di questa storia, ma per arrivare a tutto questo deve esserci un pericolo tangibile per l’agente, pericolo che ne mette a rischio l’incolumità. Provvedimenti come questi vengono presi per qualsiasi forza dell’ordine o anche magistrati o anche semplici cittadini. Nelle case circondariali è uno dei tanti rischi che corre il personale della Polizia penitenziaria. Gli agenti vigilano su varie tipologie di detenuti e ciascuno ha la sua pericolosità.

C’è il detenuto comune, quello di alta sicurezza, i 41 bis, ma la vera pericolosità non dipende tanto dalla tipologia del detenuto quanto dalla sua personalità. In carcere, il detenuto che tenta di rimanere al di fuori delle regole, rischia di creare queste situazioni. Se un detenuto, per esempio, chiede un cellulare ad un agente, è chiaro che ottiene un rifiuto perché l’agente sta alle regole che vietano la presenza di telefoni in carcere. Il rifiuto, però viene visto come un affronto personale e si innescano meccanismi di violenza». Insomma, in carcere ci sono le regole che vanno rispettate e gli agenti della Penitenziaria che vigilano sul rispetto di queste regole si fanno spesso dei nemici. Ed è questo, a quanto pare, il caso dell’agente cepranese.