Spazio satira
Non solo musica
11.06.2024 - 19:08
Danilo Rea, nato a Vicenza nel 1957, ha un forte legame con la nostra provincia: il padre di Cassino e la madre di Ripi FOTO ADRIANA TUZZO
Danilo Rea, figlio della nostra terra, un mito nel mondo, un pianista che fa dell’improvvisazione un mantra buono per ogni dove e ogni quando. Comunque non per solo jazz…
Qual è il suo rapporto con la Ciociaria?
«Mio papà era di Cassino, mia madre di Ripi e suo fratello, Renzo Silvestri, deputato, fu sindaco di Fiuggi dal 1960 al 1970». Un altro zio di Danilo Rea, Aldo Silvestri, è rimasto sicuramente famoso tra i giovani degli anni settanta e ottanta, se non altro perché ingegnere autore del mattonato del marciapiede di viale Marconi, strada imprescindibile dello struscio frusinate di quel periodo.
Quando ha incontrato la musica?
«Una volta diplomato al liceo classico volevo entrare al conservatorio ma era difficile perché non avevo docenti che mi presentassero. Fortunatamente, mio zio Renzo conosceva il maestro Daniele Paris, promotore principale della fondazione del conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone, nonché grande musicista. Così entrai e, completati gli studi musicali classici, mi sono poi specializzato in piano al conservatorio di “Santa Cecilia” di Roma».
Che cosa è la musica?
«La musica per me è una passione, un grande amore. A volte i grandi amori finiscono ma per me la musica è sempre stata di aiuto, non mi ha mai abbandonato. Non so proprio che cosa avrei fatto senza la musica, che carattere avrei avuto, dove sarei stato ora…». (“Ma io, io sono con te ogni giorno, perché di te ho bisogno…”, da “Acqua e sale”, Mina/Celentano, 1998). Uno tra i tanti motivi della fama di Danilo Rea è nell’improvvisazione, tecnica strumentale che gli consente persino di disattendere la scaletta dei suoi concerti.
Quanto deve all’improvvisazione?
«L’improvvisazione è stata la mia salvezza dalle imposizioni dello spartito! I pentagrammi ti obbligano all’interpretazione di ciò che è stato scritto, ma non puoi andare “oltre” con la tua mente facendo volare le note… È come se rinchiudessi un uccello in una gabbia molto grande, può librarsi in aria ma sempre entro certi limiti. Invece l’improvvisazione è qualcosa di molto diverso in cui sei tu il compositore, il direttore d’orchestra e il protagonista libero di scegliere la direzione, l’intensità e il tempo. Anche i grandi musicisti classici del passato erano improvvisatori. Oggi purtroppo raramente la materia entra nell’offerta didattica dei conservatori». (“Che volano e volano e volano…”, da “Le mille bolle blu”, Mina 1961).
A proposito di conservatorio e di docenze…
«No, non insegno più al conservatorio, l’ho fatto per sette anni a “Santa Cecilia” a Roma, “Improvvisazione piano jazz”. Troppo impegnativo insegnare e suonare».
Dalla musica classica al jazz: il passaggio è stato traumatico?
«Volendo approfondire, tra i due generi non c’è una netta distinzione. E sa qual è il ponte che li collega? L’improvvisazione! Le faccio un esempio: Johann Sebastian Bach, uno dei grandi della musica classica, improvvisava durante le esecuzioni».
Quindi il jazz è…
«Improvvisazione per prima cosa! È libertà estrema, almeno per me, uno dei pochi momenti nella vita in cui non dipendiamo da vincoli lavorativi, familiari, sociali, politici. In questo senso è anche provocazione… Quando suono jazz al piano, siamo soli, io e lui, ci compenetriamo mentalmente, intimamente e profondamente. E se invitiamo qualcuno a unirsi con noi…». (“Con la mia testa io, io vi conquisterò…”, da “Nuda”, Mina, 1976).
…sarà solo se in possesso di requisiti molto validi...
«Esatto! In un gruppo jazz l’affiatamento è tutto, proprio perché occorre parlare lo stesso linguaggio che non è codificato. Nel jazz si vola alto, verso mete sconosciute. Ma questo può essere anche un limite…».
Per questo motivo i suoi colleghi devono essere…
«…in sintonia totale con me, e io con loro, ovviamente».
Di recente si è esibito a Napoli con Ramin Bahrami, pianista iraniano naturalizzato italiano, nel concerto “Bach is in the air”. Che cosa l’ha legata a Bahrami?
«Con lui abbiamo avuto un’intesa immediata sul progetto del concerto, e cioè di esaltare la modernità e l’universalità della musica di Johann Sebastian Bach e di proporla non solo agli amanti della musica classica, ma anche ai giovani che ascoltano solo il pop o il jazz e persino ai bambini. In effetti abbiamo cercato di dialogare con la musica del compositore tedesco senza snaturarla, contando sulla sua freschezza realizzativa e sull’attualità del suo messaggio».
Che pensa della critica?
«I critici hanno il dovere di fare chiarezza sulla cultura, di giudicare insomma, soprattutto in un periodo di scadimento della musica sia come testi che come armonia e melodia... Spesso però i critici sono costretti dai direttori dei giornali a recensire artisti non graditi perché “tirano” e fanno vendere qualche copia in più». Il suo talento non si manifesta solo nel jazz ma anche nella musica leggera. Tanti cantanti si avvalgono della sua collaborazione nei concerti e nelle sale di registrazione. Domenico Modugno, Rino Gaetano, Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni, Pino Daniele, Gino Paoli, Fiorella Mannoia, Renato Zero, Gianni Morandi, Adriano Celentano, solo per citarne alcuni.
A questo elenco manca, però la “Tigre di Cremona”…
«Già, Mina… La cantante con la quale è più emozionante suonare ma anche più impegnativo. Sa quello che vuole, è allo stesso tempo estemporanea e precisa. Ti dà pochissimo tempo per studiare il brano, poi devi eseguire attento e concentrato. È una donna di una dolcezza infinita ma anche di una severità professionale incredibile. Nelle prove non canta mai più di due volte un brano, se sbagli l’esecuzione per la terza volta abbandona la sala di registrazione annoiata… In più, e in questo la trovo molto jazz, improvvisa pretendendo che tu la segua. Quindi non ci sono arrangiamenti effettuati prima dell’esecuzione del pezzo, non esiste spartito, devi cogliere l’attimo, cioè il suo estro del momento. Normalmente con lei si impiegano tre giorni per registrare un disco, quando con le star attuali di musica leggera a volte si impiega anche un anno».
A proposito di musica leggera… Sanremo?
«Sono sempre stato appassionato del Festival, sia come pianista, e ci sono stato più volte, che come spettatore. Eccezion fatta per qualche big del passato come Loredana Bertè che ottiene consensi anche dalle nuove generazioni, è in corso una specie di passaggio di testimone da una Sanremo “vecchia” a una Sanremo più al passo con i tempi. Piuttosto non mi piacciono i nuovi metri di giudizio dei concorrenti, basati sulle visualizzazioni, sui like, sui social media. Un tempo cantavano con lo smoking e veniva valutata la canzone e la voce, oggi si vota il personaggio e la sua immagine». (“Chiamami passione dai, hai visto mai”, da “Parole parole”, Mina, 1972).
…ecco, l’immagine?
«Questo è un punto dolente delle nuove generazioni di musicisti. Una volta il messaggio rivolto ai giovani dai Battisti, De André, De Gregori era di protesta contro le ingiustizie sociali, economiche e politiche. Oggi invece ci sono personaggi che esaltano i vizi della società. Nelle clip (brevi video musicali, ndr) i rapper di turno scendono da una lussuosissima automobile, ostentano orecchini, collane e denti d’oro, sono armati, indossano pellicce… Questo modello, per altro male copiato dagli Usa, che esempio dà ai giovani? Il motivo di tutto ciò è aumentare i guadagni dei musicisti e del loro entourage, diventati ormai un’impresa commerciale. Ridateci Bob Dylan!».
Che pensa, a questo punto, della digitalizzazione della musica?
«Mi piace e non mi piace. Mi piace perché su una piattaforma musicale fai dei viaggi incredibili e per un musicista avere una discoteca con milioni di brani è il massimo! Non mi piace perché non si vendono più cd e l’unico modo per guadagnare è rimasto il concerto. I social media stanno prendendo il posto delle case discografiche, non c’è più selezione ed è sufficiente che un brano diventi “virale” perché il cantante si trasformi in una star. E poi vuoi mettere la coinvolgente musicalità del gesto di inserire su un giradischi un 45 giri ascoltabile socialmente da tutti i presenti con un asettico brano ascoltato dallo smartphone nella triste solitudine delle cuffie…?». (“Se telefonando io potessi dirti addio”, da “Se telefonando”, Mina 1966).
Torniamo al jazz: un giovane che volesse avvicinarcisi, che cosa dovrebbe fare?
«Non dovrebbe seguire le mode o almeno liberarsene per cercare di essere comunicativo. Ultimamente il jazz è diventato molto cerebrale ed è un problema perché alla lunga il pubblico si annoia. Occorre ristabilire un contatto con il pubblico per dargli un’emozione. I giovani spesso rifiutano questo aspetto perché lo considerano ruffiano. Il rischio che corrono è l’autoreferenzialità». (“Guarda quel bimbo che corre, guardagli il viso, tanto felice che sembra che sia in paradiso”, da “Amor mio”, Mina, 1971).
Nella musica buona prevale la tecnica o l’emozione?
«Le rispondo con un aneddoto. Una volta Gino Paoli mi disse: “Io non so se so cantare, non so se sono un grande cantante ma so che quando salgo sul palco creo un’emozione ed è quella che mi ha fatto andare avanti per tutti questi anni”».
Ha un desiderio da esaudire?
«Vorrei continuare a improvvisare, come nella musica così nella vita…». L’importante è… è non finire…
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