Originaria di Frosinone, classe 1986, Selvaggia Di Fazio è laureata in ingegneria clinica e in ingegneria biomedica alla "Sapienza" di Roma. Dopo vari lavori di consulenza, decide di intraprendere un'esperienza internazionale di studio e conseguire un master in business administration alla Hult International Business School di Boston, nel Massachusetts, dove si trova in questo momento.

Cosa pensi delle scelte del Governo americano in merito alla prevenzione dei contagi da Covid-19? «Penso che stia mostrando un approccio più di mantenimento che di prevenzione. Si parla di quante perdite si avranno invece di quante persone si potranno salvare. Le limitazioni per la popolazione non sono ancora sufficientemente forti da ridurre il numero di contagiati. Anche il messaggio che viene comunicato è poco chiaro: stare preferibilmente in casa ma nello stesso tempo non viene limitata l'uscita, non vi sono contravvenzioni per chi esce senza una causa ragionevole. Si susseguono invece articoli di volti noti americani, come Bill Gates, che affermano quanto sia importante limitare gli spostamenti e spingersi verso una chiusura per controllare il contagio. La preoccupazione non nasce molto per il numero dei casi, ma per quelli non considerati reali, per l'approccio intrapreso e per le diverse misure attuate nei vari Stati.
Sinceramente, nel mondo ci sono esempi di gestione più definiti».

E cosa pensavi quando il presidente Trump minimizzava l'impatto del Covid-19 mentre in Italia si stava scatenando l'inferno?
«Il primo discorso di Trump mi ha lasciato stupita. Era dedicato agli impatti economici e all'assi curazione che la macchina organizzativa americana avrebbe superato senza dubbio la lenta e inappropriata risposta europea al virus. Comunicava la chiusura dei voli dall'Europa e gli accordi con le assicurazioni per avere test e ospedalizzazioni gratuiti per i malati di Covid-19, ovviamente solo per quelli assicurati. Testimone di quanto succedeva nel frattempo in Italia, non ho ben capito come mai la risposta degli Stati Uniti non fosse così determinata come quella di altri Paesi. Poi ho visto che Trump si è fatto consigliare da esperti e ho pensato che potesse ottenere un ottimo risultato, ma dopo qualche giorno questi esperti non apparivano più e con loro è venuta meno anche la mia speranza di misure più rigide. Detto ciò, la fortuna è stata la libertà di ciascun governatore di prevedere le proprie soluzioni di protezione e di gestione del virus. I primi Stati a muoversi sono stati quelli che avevano già molti casi prima che i numeri cominciassero a crescere anche quia Boston. Ad esempio California e Washington».

Quali disposizioni sono state prese dal governatore del Massachusetts Charlie Baker?
«Devo dire che ha reagito in maniera rapida e già subito dopo il primo numero elevato di contagi, ai primi di marzo, ha cominciato a raccomandare di non fare più assembramenti in eventi non obbligatori, e qualche giorno dopo a chiudere le scuole. Dal 10 marzo è stato dichiarato lo stato di emergenza, con la chiusura di ristoranti e locali. Più recentemente sono infine partite le disposizioni più restrittive, come ad esempio non essere in più di dieci persone nello stesso posto contemporaneamente. Un aiuto, per quanto riguarda la citta di Boston, è arrivato anche dal sindaco Walsh che, soprattutto negli ultimissimi giorni, ha ulteriormente limitato le uscite dalle 21 alle 6 della mattina. Non siamo in lockdown e non ci sono ancora delle restrizioni come in California o in Europa, ma si aspetta per decidere cosa fare».

Si è parlato molto della corsa degli americani in armeria…
«Questa notizia è apparsa quasi immediatamente su tutte le testate mondiali, mentre qui ha avuto poco risalto. Leggendo gli articoli, si nota un insieme di paura e rabbia, e traspare una poca fiducia nei confronti del Governo e dei possibili provvedimenti per la (non) gestione del virus. La cultura americana ha un forte sentimento di libertà, credo che sia uno dei valori più importanti per la popolazione. Quando è necessaria l'applicazione di regole e leggi, gli americani le seguono diligentemente. Ma quando non ci sono non si sentono al sicuro, è una sensazione che ho provato anche io.
Senza una guida, la paura è cresciuta ma non so dire se questa venga gestita meglio con un'arma».

Puoi parlarci della sanità americana e del costo elevato dei tamponi di cui si è discusso molto? «Credo che, come in ogni cosa, ci siano aspetti positivi e negativi. Che la sanità privata, gestita come un'azienda, sia più efficientee crei una spesa inferiore a quella pubblica è un dato di fatto, ma non può consentire una parità di cure a tutta la popolazione e in un momento come questo diventa rischioso per tutti. Il costo dei tamponi è solo la punta dell'iceberg. Infatti, credo che la problematica più grande sia farsi visitare dal medico, visita che ha un prezzo elevato. Stesso discorso per il costo del ricovero giornaliero in ospedale, che a Boston viene valutato mediamente intorno ai 3.900 dollari. Si stima che 27,5 milioni di americani non sono assicurati, mentre per molti di quelli che lo sono, le spese dell'assicurazione sono già superiori al 5-10% del loro reddito e quindi ci pensano più volte prima di chiamare il medico quando hanno qualche problema di salute. Altro esempio sono i posti letti disponibili per ogni mille persone: sono 2,9 negli Stati Uniti, rispetto ai 3,4 in Italia o agli 8,9 della Germania. Ci sono anche meno dottori ogni mille abitanti.

Com'è la situazione negli ospedali americani e a Boston?
«Ho letto che qualche governatore ha problemi a trovare ventilatori sufficienti per la propria popolazione.
Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, sta avendo molto successo grazie alla sua gestione della pandemia e per il suo modo schietto e umano di raccontarne l'evoluzione alla popolazione con bollettini quasi giornalieri. In un'intervista sosteneva la necessità di avere 30.000 respiratori per aiutare i malati nel suo stato. Ne è nato un dibattito attraverso i media con il presidente Trump che ne metteva a disposizione soltanto 400 per stato».

Cosa pensi invece della situazione italiana e, ovviamente, ciociara?
«Da quanto leggo e sento, credo che, perquanto il numero dei contagi sia elevato, si stia gestendo la situazione meglio che in altri Paesi. Certo, l'alto tasso di mortalità per questa malattia dovrebbe far riflettere tutti e in particolar modo le autorità su una gestione più efficiente della spesa sanitaria. Il numero dei guariti, invece, dimostra l'altissima qualità del nostro servizio sanitario, che purtroppo soffre delle poche risorse.
Spero vivamente che da questa terribile esperienza riusciremo a trarne degli insegnamenti positivi, non dimenticandoci subito di quanto accaduto ma piuttosto mettendo in atto delle azioni migliorative che possano proteggerci in casi come questo. L'Italia ha una grande influenza a livello mondiale, grazie alla sua storia, alla sua cultura e alla sua immensa creatività. Le manifestazioni di umanità di queste settimane hanno fatto il giro del mondo. Le restrizioni stanno cambiando la vita di tutti e si è stanchi, ma invito tutti a guardare cosa succede in altri Paesi e a sentirsi orgogliosi della forza e della determinazione dimostrata. Non mollate».