Sandro Trento è nato e vissuto a Frosinone. Fino al 1981. Quando ha conseguito la Maturità presso il Liceo Scientifico "F. Severi". Poi ha studiato economia all'Università La Sapienza di Roma, quindi si è specializzato negli Stati Uniti alla Northwestern University (Chicago). Ha lavorato come economista presso il Servizio Studi della Banca d'Italia per 15 anni e poi è stato direttore del Centro studi di Confindustria. Dal 2007 è professore ordinario di economia e management presso l'Università di Trento. È anche direttore generale della Fondazione Ergo. Collabora con vari periodici e quotidiani, tra i quali "il Foglio" e "il Sole 24 Ore". È uno degli analisti economici più quotati e autorevoli del Paese. E non solo. Insomma, quel ragazzo ne ha fatta di strada.

Allora professor Trento, l'emergenza Covid-19 sta mettendo a durissima prova tutte le economie del mondo. Lei avrà certamente disegnato uno o più scenari post-crisi. Che mondo sarà quello del dopo-Covid?
«Siamo di fronte a uno shock molto grave. L'impatto economico finale dipenderà dalla rapidità con cui i vari paesi riusciranno a contenere la diffusione del virus, e al momento le informazioni che abbiamo su Stati Uniti ed altri paesi non sono incoraggianti, e dalla quantità di risorse che verranno messe in campo dai governi per sostenere l'economia reale nelle varie aree. Le Nazioni Unite hanno stimato che il Covid-19 possa comportare una caduta della crescita dell'economia mondiale a un tasso del 2,5 per cento che di solito significa una recessione in gran parte del mondo. Si parla di un costo a livello mondiale pari a un trilione di dollari. Ma secondo altri osservatori la crescita mondiale potrebbe scendere allo zero per cento e questo vorrebbe dire una recessione gravissima. Sarà fondamentale nelle prossime settimane capire se innanzitutto in Cina e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, i governi sapranno intervenire con forza per stimolare la ripresa dell'economia.

Gli scenari non sono semplici da elaborare. Se nell'arco di due mesi la diffusione del virus fosse abbattuta in modo drastico, pari a quanto avvenuto a Wuhan, lo scenario sarebbe sì negativo ma non devastante. Se invece ci fossero nuovi focolai in Cina, magari con un virus mutato e ancora più pericoloso, la situazione potrebbe davvero precipitare verso una crisi economica gravissima. Cerchiamo di essere ottimisti. Le misure di contenimento in Italia sembrano funzionare e potrebbero funzionare anche negli altri paesi. Il mondo dopo-Covid potrebbe essere diverso da quello che abbiamo conosciuto. Il virus colpisce la fiducia delle persone. Accresce l'incertezza e il senso di insicurezza. I pericoli sono quelli di una frammentazione della vita sociale. Non ci fideremo più dei luoghi affollati, avremo paura a fare viaggi, saremo diffidenti verso gli altri. Come si tradurrà questa insicurezza in termini politici? Maggiore chiusura delle frontiere?».

È il tramonto della globalizzazione?
«Dal punto di vista economico quello che abbiamo capito è che abbiamo costruito un modello di globalizzazione che ha un centro da cui dipende in misura elevatissima tutta l'economia mondiale. Questo cardine è la Cina. La Cina oggi è il principale paese fornitore a livello mondiale per tanti settori produttivi. In Cina sono prodotti beni intermedi indispensabili all'industria europea, a quella statunitense e di molti altri paesi. La Cina è il principale acquirente di materie prime al mondo (oltre 300 miliardi di dollari all'anno) e quindi è legata a tanti paesi esportatori di materie prime. Le catene del valore oggi sono organizzate a livello globale e moltissimi produttori hanno localizzato propri impianti per la realizzazione di intere fasi produttive proprio in Cina.

La Cina inoltre è un grande mercato di consumo. Pensiamo ai soli beni di lusso: i cinesi hanno speso in questo comparto, nel solo 2019, 115 miliardi di dollari; ma pensiamo anche al turismo. Sono proprio i turisti cinesi quelli che sono aumentati di più negli ultimi anni. Mi aspetto una fase di deglobalizzazione, che in realtà era già in corso. I vari paesi cercheranno di ridurre l'interdipendenza con la Cina. Assisteremo a un significativo trasferimento di attività produttive dalla Cina verso i paesi di origine. Un re-shoring insomma. Saranno riorganizzate varie filiere produttive e l'economia mondiale forse diventerà policentrica. Questo potrebbe essere un processo benefico, ne scaturirebbe una maggiore stabilità e un minor rischio di crisi».

Veniamo all'Italia...
«L'Italia già partiva da un quadro economico non certo esaltante e oggi il coronavirus rischia di darci un colpo grave. È chiaro che la priorità debba essere quella della salvaguardia delle vite umane. Ma abbiamo preso sottogamba il pericolo. Avremmo forse dovuto prevedere subito misure drastiche di contenimento dell'epidemia. In più le zone rosse sono coincise che le regioni più industrializzate del nostro paese e questo naturalmente si è subito tradotto in una caduta significativa della produzione industriale e dei consumi.

Già nel primo trimestre di quest'anno il nostro PIL aveva segnato una contrazione e ora è quasi certo che anche il secondo trimestre avremo un segno meno. Due trimestri di riduzione del PIL vogliono dire recessione tecnica. Quale sarà il dato di fine anno? Difficile dirlo. Molto dipenderà da quanti soldi si impiegheranno per sostenere le imprese e i lavoratori. Al momento il quadro non è rassicurante. È indispensabile che si intervenga con forza e velocità. Una volta fallite non sarà più possibile far ripartire le imprese, vi sono interi settori a rischio. Vi è poi un'area a serio rischio di povertà».

Mario Draghi ha fatto intendere che, saltato il patto di stabilità, si può contrarre nuovo debito pubblico per garantire la tenuta del tessuto produttivo e i livelli occupazionali. Lei è d'accordo?
«Draghi ha detto che siamo di fronte a uno shock negativo inatteso e che questa è la tipica situazione in cui è lecito usare il bilancio pubblico per sostenere l'economia. Quindi non è corretto dire che Draghi oggi ha sdoganato l'idea che si possa far crescere il debito pubblico senza limiti. Ha detto che questa è una crisi reale e che in questo caso è obbligo dei governi di usare risorse per aiutare imprese e cittadini. Uno shock come questo è simile a una guerra, quindi è corretto immaginare che il costo per fronteggiarlo venga ripartito su più generazioni. Il problema dell'Italia è che non siamo stati capaci di ridurre e neanche di stabilizzare il rapporto tra debito e PIL negli ultimi venti anni e oggi abbiamo minori margini per un ulteriore indebitamento rispetto ad altri paesi».

Mentre in molti sostengono che con la chiusura dei falchi del Nord Europa (Germania e Olanda in testa) si sia chiuso il sogno di un'Europa unita, altri invece ritengono che questa sia la grande occasione per far capire a tutti che l'Europa può avere un senso. Soprattutto se riuscisse ad incarnare il principio di solidarietà per il quale è nata…
«Siamo effettivamente davanti a un bivio. In una situazione così drammatica l'Europa potrebbe frantumarsi con costi elevatissimi per tutti. In alternativa potrebbe esserci oggi uno scatto verso l'avvio di una vera politica economica comune. Questa non è una crisi finanziaria come quella del 2008 ma è una crisi che investe l'economia reale. Serve quindi che l'Europa crei finalmente una comune politica di bilancio. Questo è il nodo. Certo si tratta di una questione che da anni aleggia nel dibattito europeo ma oggi potrebbe essere l'occasione giusta per fare un salto. Ma per avviare una politica europea di bilancio ci vuole comunque tempo. La crisi chiede interventi rapidi. Teniamo conto comunque che la BCE si è mossa, oggi acquista circa 200 miliardi di euro di titoli pubblici italiani.

Una somma enorme. Si sta parlando inoltre di una forma di indennità di disoccupazione a livello europeo, cosiddetto sistema "Sure" e anche questo è un bene. Nella contrapposizione tra "falchi" e "colombe" andrebbe però ricordato un fatto. Non abbiamo certo rassicurato gli olandesi, i tedeschi, i finlandesi quando ci siamo permessi il lusso di introdurre Quota 100 sulle pensioni, o quando abbiamo destinato un miliardo di euro (pochi giorni fa) per rifinanziare l'Alitalia. I contribuenti dei paesi del Nord Europa temono che un'eventuale condivisione a livello europeo di nuovo debito pubblico italiano si traduca poi in misure che non servono per rendere più competitiva la nostra industria o per migliorare la nostra scuola ma in sprechi ed elargizioni dannose.

Mi lasci dire che l'ipotesi di un'Italia che esca dall'Europa come soluzione ai nostri problemi è una grande bugia. Se oggi uscissimo dall'Europa avremmo una crisi economica e sociale epocale. Chi comprerebbe i titoli del nostro debito pubblico ridenominato in lire? Quante banche fallirebbero? Chi dice: torniamo sovrani e riprendiamo a stampare le lire di fatto vuole creare una iper-inflazione e in questo modo cancellare il debito pubblico ma anche i risparmi degli italiani. L'inflazione inoltre comporta sempre redistribuzione di reddito a svantaggio dei meno abbienti. Inevitabilmente».

Dopo che per alcuni giorni se ne è parlato, è sparita dalle ricette per la ripresa l'idea di un imponente piano di ricostruzione attraverso miliardi di opere pubbliche. Perché?
«Un imponente piano di opere pubbliche richiede proprio quella politica comune di bilancio di cui parlavo prima. Va anche detto che c'è sempre un ritardo tra l'avvio di un piano di investimenti pubblici e l'effetto di moltiplicazione che questo può avere sul sistema economico. Gli investimenti in infrastrutture sono utili e giusti ma non sono certo il modo immediato per reagire alla crisi in atto. Oggi si tratta di trasferire soldi nelle tasche dei cittadini che non riescono a lavorare, penso ai lavoratori dell'industria ma anche ai tanti lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori. Servono misure straordinarie, semplici da implementare. Ma ricordandosi che poi si dovrà pagare il conto del nuovo debito accumulato».

Cominciano a circolare voci su un possibile declassamento dei titoli del debito pubblico italiano a "junk"…
«Un declassamento del nostro debito a livello "junk" avrebbe conseguenze molto gravi. Molti fondi di investimento non potrebbero più comprare i BTP e gli altri titoli pubblici italiani. La stessa BCE non potrebbe più inserire i titoli pubblici italiani nel proprio portafoglio per le operazioni di quantitative easing. Le banche che hanno nel loro attivo molti titoli pubblici italiani sarebbero a loro volta declassate e subirebbero un aumento del costo della raccolta. Si rischierebbero vendite massicce di titoli pubblici con un aumento dello spread e quindi l'avvio di un pericoloso circolo vizioso, spread in aumento, aumento della spesa per interessi da parte dello Stato, aumento del debito e peggioramento ulteriore della valutazione sulla solidità finanziaria del nostro paese. In ogni caso non è detto che il declassamento avvenga. Non è detto poi che tutte le agenzie di rating operino il declassamento. Speriamo infine che il governo sappia rassicurare i mercati».

La pressione delle fasce più deboli che cominciano ad avere "il frigorifero vuoto" preoccupa. Professore, ritiene sufficienti le misure varate fino a questo momento?
«No, non sono sufficienti. Servirebbe una manovra molto più corposa. La questione è capire se davvero ci sarà la possibilità di emettere eurobonds. Nell'ultimo vertice l'idea non è passata. Ma la situazione è in evoluzione. Certo il governo dovrebbe intanto mettere a punto una manovra straordinaria che consenta di trasferire risorse a chi è in difficoltà. E penso in questo caso anche ai tanti lavoratori in nero e precari. In momenti come questi serve coraggio. Proprio per evitare il declassamento di cui abbiamo parlato bisognerebbe trovare almeno una parte delle coperture per le spese straordinarie contro la crisi.

Forse si dovrebbe abolire subito Quota 100; ritirare il decreto sul cuneo fiscale, ma ci vorrebbe anche altro. In questo momento i dipendenti del settore privato stanno pagando un duro conto per via della crisi in corso, non sarebbe sbagliato se anche i dipendenti pubblici facessero la loro parte. E poi servirebbe anche un intervento sui redditi finanziari e da capitale. In tempi di guerra servono misure eccezionali, purtroppo. E in un paese in cui l'evasione fiscale è così diffusa ha più difficoltà a reperire risorse necessarie per contrastare le crisi».

Come cambieranno i rapporti nel mondo del lavoro?
«La crisi del coronavirus potrebbe essere un'occasione per ripensare alle condizioni di salute nei luoghi di lavoro. Stiamo inoltre scoprendo il lavoro a distanza. Credo che il ricorso allo smartworking sarà molto intensificato d'ora in poi e questo potrebbe consentire una migliore gestione dei tempi di vita e di lavoro per le persone ma anche accrescere le opportunità di lavoro per nuove categorie di lavoratori».

E l'automotive?
«Il settore al momento non se la passa bene. La domanda mondiale di automobili è in calo da un po' di tempo a causa sia dei dazi introdotti da Trump ma anche alla contrazione del mercato cinese. Il Covid-19 darà un ulteriore colpo alla domanda di auto. La stessa industria automobilistica tedesca sta conoscendo difficoltà. Sono in corso due grandi sfide, quella dell'auto elettrica e quella delle auto self-driving. Su ambedue i fronti l'industria europea è un po' in ritardo. La fusione tra FCA e Peugeot ha fatto nascere un nuovo grande player alternativo ai colossi tedeschi e questo è un bene. Ci vorrà ancora almeno un anno perché la fusione sia messa in atto. Lo stabilimento di Cassino è uno stabilimento ipertecnologico, ben organizzato e oggi realizza vetture di fascia premium del gruppo FCA. Nel 2021 verrà avviata a Cassino la produzione del nuovo modello Maserati e anche questo è un buon segnale. La fusione con PSA consentirebbe alle vetture FCA di sfruttare rete distributiva del gruppo francese che è molto estesa nel mondo».

Il chimico-farmaceutico del Basso Lazio è un'eccellenza nazionale. Reggerà?
«Direi proprio di sì. L'emergenza sanitaria in corso comporterà maggiori investimenti nella sanità. Mi aspetto che il nostro sistema sanitario verrà riorganizzato, dopo la pandemia. L'attenzione alla salute è destinata a crescere e quindi il settore farmaceutico vedrà aumentare le proprie opportunità di sviluppo».

Pensa davvero che alla fine "andrà tutto bene"?
«Sono ottimista di natura. Ho tre figli e già questo svela il mio ottimismo. Abbiamo le risorse e le capacità di contenere la pandemia e di sconfiggere il virus. Dobbiamo imparare da questa crisi. Dovremmo creare unità di emergenza sanitaria, ammodernare alcune procedure, sfruttare le moderne tecnologie e dati. Oggi tutti parlano di ricerca ma l'Italia è uno dei paesi che destina meno risorse alla ricerca scientifica e tecnologica. Ricordiamocelo quando sarà finita l'emergenza. Ricordiamoci anche che i vaccini servono e che vanno fatti. Per l'economia italiana questa crisi potrebbe essere anche un momento per avviare cambiamenti a lungo rimandati e diventare più efficienti».