C'è chi ha perso casa, chi la moglie, chi si è venduto l'oro di famiglia, chi è finita in mano agli usurai, chi è dovuto scappare da Frosinone, chi è finito in comunità o in carcere.
E ancora chi per non farsi riconoscere da Frosinone va a giocare a Roma. L'esercito delle vittime del gioco d'azzardo è sconfinato anche in Ciociaria.

Dove tra vlt, scommesse sportive, lotterie istantanee, nel 2018, secondo i dati dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, i ciociari hanno giocato in media 1.676 euro pro capite.
In quell'anno a Frosinone sono stati giocati, nelle varie forme del gioco legale, 116 milioni di euro, a Cassino 80. L'associazione No game ha presentato, nell'ambito del progetto portato avanti con il distretto sociale B, il convegno "Non giocarti la vita".

Il moderatore il giornalista Emilio Orlando ha ricordato l'evoluzione normativa che ha portato alla diffusione in Italia del modello anglosassone delle Vlt, dopodiché ha parlato di un «dedalo di norme, a volte incomprensibili e a volte inapplicabili». Quindi ha dato la parola al giudice del tribunale di Roma Valerio de Gioia: «Il problema non è solo il gioco d'azzardo, che, secondo la Cassazione, è un disturbo della personalità legato a tutte le forme di gioco con vincite in denaro. Questa dipendenza è più insidiosa perché rovina le famiglie.
Chi è affetto da questo disturbo ha costante bisogno di procurarsi denaro». E spesso lo fa in modo illecito. «Furto, appropriazione indebita, peculato, omesso versamento degli assegni di mantenimento - continua il giudice - L'essere affetto da questa problematica, fino al 2005, non portava ad alcuna clemenza davanti al giudice. Dal 2005 i disturbi della personalità hanno rilevanza, per cui l'imputato lo posso considerare incapace di intendere e volere».

Un beneficio che si può avere quando chi commette il reato lo fa «per giocare immediatamente», ma non per ripianare i debiti. Paradossalmente, aggiunge il giudice, per il ludopatico «la cosa peggiore che possa capitare è vincere. Nella fase acuta della malattia sono finiti dopo una grande vincita». È andato dritto al punto, raccontando la sua esperienza Tiberio Patrizi, presidente dell'associazione No game, con un passato da giocatore. Uno dei tanti, basta cambiare nome e cifre dice e le storie sono tutte uguali.
«Non si guarisce da questa dipendenza, la si può arrestare giorno per giorno - esordisce Patrizi- All'epoca ero un giocatore normale, poi ho incontrato le Vlt e sono diventato un giocatore compulsivo. La prima volta penso di aver giocato 12.000 euro. Mi sono distrutto per 300.000 euro. Ho dovuto svendere due ville al mare. Il mio problema principale la mattina era giocare, vincere e rimettere a posto tutto. Chi cede, perde tutto, perde la dignità. Negavo l'evidenza, ma dentro di me pregavo di essere scoperto. Poi sono stato in cura e così nasce No game».

Nasce da un'esigenza. «Cosa serve per fermare queste persone? Abbiamo messo due avvocati, due dottoresse, un consulente finanziario e ci siamo affidati alla Caritas. Chi viene da noi ha toccato il fondo. Il problema non è fermare i giocatori, ma ridare serenità a una madre, a un padre, a una moglie. Chi viene da noi, dopo otto mesi ha qualche piccola ricaduta, ma non sta giocando. Noi abbiamo dei gruppi di auto, mutuo aiuto, facciamo anche delle cene perché chi viene qui non ha più neanche un amico.Prima facciamo un colloquio per vedere se ci sono altre dipendenze. Spesso ci sono dipendenze più gravi, come la droga. Ma levare i soldi a un giocatore è come levare la droga a un drogato. Noi abbiamo vinto un bando, il nostro obiettivo è fare prevenzione. Il giocatore è un malato, con una dipendenza non facile da rilevare. Io giocavo 4/5.000 euro al giorno, quando tornavo a casa lasciavo fuori la maschera da giocatore. Quando vengono da noi,tranne due telefonate, sono sempre i familiari».

Il giocatore patologico presenta anche elementi positivi. «Sul posto di lavoro si ha un incremento della produttività - dice l'assistente sociale di No game Valentina Cedrone - per incrementare il reddito da giocare. È scientificamente provato che tutti i soggetti della famiglia avranno disagi: i figli hanno maggiori probabilità di sviluppare lo stesso meccanismo».