In Italia risultano in uno stato di povertà assoluta 1.800.000 famiglie (il 7% dei nuclei familiari) per un totale di oltre 5.000.000 di individui (l'8,4% della popolazione). I dati appaiono pressoché stabili se confrontati con quelli del 2017 quando infatti l'incidenza si attestava al 6,9% per le famiglie e all'8,4% per gli individui. È quanto emerge dal report 2019 della Caritas su "Povertà ed esclusione sociale" reso noto in occasione della Giornata Mondiale dei Poveri.
Nel corso del 2018 tendono ancora ad aumentare i cosiddetti "working poor". In particolare cresce la situazione di criticità delle famiglie il cui "capofamiglia" è impiegato come operaio o assimilato; tra loro risulta povero in termini assoluti il 12,3% del totale. Colpisce e allarma il confronto tra la situazione delle famiglie di operai di oggi con quella antecedente al 2008: tra loro, in soli dieci anni, l'incidenza della povertà assoluta è aumentata del 624% (passando dall'1,7% del 2007 al 12,3% di oggi).
Tra i disoccupati, emerge dal report, la povertà assoluta arriva oggi al 27,6%. Ad incidere in modo particolare sulla povertà assoluta risultano per lo più la cittadinanza, l'ampiezza dei nuclei e l'eventuale presenza di figli minori, il livello di istruzione, l'età, lo stato di disoccupazione e, in caso di occupazione, il tipo di lavoro svolto.
Stando a quanto emerge dal report, il Reddito di Cittadinanza prevede importi molto più sostanziosi del Rei ma vi sono degli sfavoriti: i nuclei con 5 e più componenti e i nuclei con figli minori che ricevano un aumento meno che proporzionale tanto che i singoli ricevano un contributo superiore della soglia di povertà, mentre le famiglie con 4 e più ricevono un importo sempre inferiore alla soglia di povertà.
Il Reddito di Cittadinanza ha una platea di beneficiari potenziali di gran lunga superiore al Rei (e a oggi ne ha raggiunti più di 2 milioni), ma vi sono degli esclusi: sono gli 87.000 nuclei di stranieri extra Ue che sono stati tagliati fuori dal criterio della residenza 10 anni e i senza dimora, i restanti poveri assoluti che non rispettano i criteri di residenza e quelli che non rispettano quelli di reddito e patrimonio; non prevede un coordinamento unitario delle risposte territoriali che non è più in capo ai soli servizi sociali e scompagina il sistema di interventi, segmentandolo (con persone convocate dai Cpi o dai Servizi sociali).
Nel 2018 le domande più frequenti sono state quelle relative a beni e servizi materiali (58,2%), che coincidono per lo più con richieste di pacchi viveri, vestiario o accesso alle mense/empori, complessivamente in calo rispetto all'anno precedente (quando si attestavano al 62,1%). Seguono poi le domande di sussidi economici (25,8%), da utilizzare soprattutto per il pagamento di bollette, tasse e/o canoni di affitto e in terza istanza le richieste collegate all'ambito salute (10,4%).
Proprio le numerose richieste inerenti la sanità (che corrispondono soprattutto a domande di farmaci e di visite mediche), mai così alte da quando si raccolgono i dati con regolarità e addirittura superiori a quelle degli ambiti "casa" e "lavoro", sottolinea il report, possono dirsi un grave campanello di allarme in questi anni di post crisi economica, che evidenziano le strette correlazioni esistenti tra deprivazione materiale e fragilità di salute. E a pagarne maggiormente le spese sono soprattutto le categorie più vulnerabili, quelle di stranieri e migranti, che vivono situazioni di maggiore precarietà economica.
L'ultimo elemento di riflessione sul quale soffermarsi è infine il livello di istruzione. Come ormai noto, la diffusione della povertà è strettamente correlata al titolo di studio. Gli ultimi dati Istat dicono che nelle famiglie il cui capofamiglia non possiede alcun titolo di studio, o al massimo la licenza di scuola media inferiore, i livelli di povertà superano il valore medio, collocandosi rispettivamente all'11% e al 9,8%, a fronte del 3,8% in caso di possesso del titolo di diploma/laurea.
«Nella nostra diocesi - dice Marco Toti responsabile della Caritas di Frosinone, anticipando alcune conclusioni sui numeri che saranno presentati ufficialmente pochi giorni prima di Natale - la situazione è sostanzialmente invariata rispetto allo scorso anno. Con l'introduzione del reddito di cittadinanza abbiamo notato come meno persone si rivolgano ai nostri dieci centri di ascolto, sparsi per tutta la diocesi, per chiedere sostegno economico per il pagamento delle utenze.
C'è stata, poi, una razionalizzazione anche nella distribuzione degli aiuti alimentari alle famiglie, quelli che passano attraverso l'Agea. Da qualche tempo, infatti, per avere i sostegni bisogna essere registrati con la comunicazione dell'indicatore Isee e del codice fiscale. Ciò ha comportato dei numeri in decrescita che, però, meritano una lettura: non significano, infatti, che ci sono meno poveri o persone meno bisognose di aiuto; significano semplicemente che oggi con la registrazione non si possono chiedere più aiuti rivolgendosi a più centri di ascolto e in questo modo si possono aiutare anche più persone.
Discorso diverso per le liberalità che non transitano per i canali ufficiali; in quel caso si possono ottenere più sostegni. Da noi è meno diffusa la figura del working poor, tuttavia, vi sono situazioni che meritano attenzione. In generale, quindi, situazione sostanzialmente identica rispetto allo scorso anno.
Vero è che l'efficacia e l'adeguatezza delle misure nazionali rischia di essere inficiata da alti livelli disuguaglianza nei sistemi di offerta dei servizi e nell'accesso ad essi. Non bastano misure di contrasto alla povertà in un Paese profondamente diseguale come il nostro: occorre garantire pari accesso ai servizi per tutti i cittadini al fine di rendere esigibile per tutti il diritto alla misura indipendentemente da dove si viva. È il motivo per cui contrasto alla povertà e lotta alle disuguaglianze devono ormai procedere di pari passo».