Una base operativa ad Artena utilizzata per preparare e poi concretizzare l'evasione dal carcere di Frosinone del boss campano Alessandro Menditti e quella di Ilirjan Boce, fallita solo perché l'uomo cadendo ha riportato gravi fratture e non è riuscito a scappare. È questo quanto scoperto, con un'indagine durata un paio d'anni, dal Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, che ha notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari a sei persone, con tre di loro che sono finite ai domiciliari, mentre altre due sono già detenute in carcere fra Nuoro e Napoli.

La storia è quella che riguarda l'evasione del "Ras" dei Belforte dal carcere di Frosinone, avvenuta il 18 marzo 2017, e il tentativo di scappare dal penitenziario dell'albanese Boce: a finire ai domiciliari sono tre connazionali di quest'ultimo, ossia il 22enne Adelio Aliaj (residente a Milano), il 23enne Ermal Kafilaj (residente ad Artena) e la 42enne Gentjiana Beqari (residente ad Artena), tutti assistiti dall'avvocato Eliana Scognamiglio.

La misura restrittiva, poi, riguardava un quarto albanese residente ad Artena, recentemente deceduto. In più, oltre a Menditti e Boce, c'è un ultimo indagato a piede libero, ossia un 52enne romano, per il quale il gip di Frosinone, Antonello Bracaglia Morante, non ha disposto alcuna misura cautelare come invece richiesto dal pm Adolfo Coletta. La storia è questa: cinque degli indagati, nel periodo precedente l'evasione di Menditti e il tentativo di fuga del Boce, avevano scelto Artena come base logistica per organizzare quanto poi avrebbero perfezionato il 18 marzo. In particolare, stando alle ricostruzioni della Penitenziaria, era Boce che, dal carcere di Frosinone, aveva contatti telefonici grazie a due sim per cellulari in suo possesso con la Beqari e con Kafilaj, insieme ai quali stava pianificando il
tentativo di evasione. Contatti che erano stati anche visivi, soprattutto con la donna. A margine di tali momenti, il gruppo aveva più volte raggiunto una ferramenta di Artena acquistando diversi oggetti (tenaglia, fiamma ossidrica, tronchesi e altro) che poi erano stati introdotti nel carcere con un'azione eseguita tra il 9 e il 10 marzo: Kafilaj e un'altra persona avevano bucato la recinzione
esterna del carcere e, con una scala in metallo e una incorda, avevano scavalcato il muro di cinta del penitenziario, raggiungendola lavanderia e svuotando il borsone; il tutto restando in contatto telefonico con Boce.

Poi, nella notte compresa fra il 17 e il 18 marzo, Menditti e Boce hanno perfezionato la fuga con gli strumenti introdotti illegalmente nel carcere: con la fiamma ossidrica hanno dissaldato una piastra
metallica e delle sbarre, riuscendo a raggiungere il tetto dell'edificio e a tagliare la grata d'uscita. In questo frangente,gli altri indagati hanno raggiunto il carcere, con Aliaj e l'albanese deceduto che sono saliti sul camminatoio del muro di cinta, lanciando una scala a pioli in legno nel carcere e attendendo l'arrivo dei detenuti. Per Menditti andò tutto bene e riuscì a scappare: Boce, invece, nello scendere dal tetto del vecchio padiglione con una corda di lenzuola precipitò a terra e rimase immobile, riportando alcune fratture. Gli altri provarono a trascinarlo per farlo uscire, ma dovettero desistere.
L'uomo, aquel punto,fu soccorso, portato in ospedale e poi trasferito in un altro carcere; Menditti, invece, venne rintracciato a Recale una settimana dopo e portato in galera.