Da venerdì pomeriggio, dal momento in cui si è diffusa la notizia della sentenza di primo grado, ad Alatri è un fermento di commenti, opinioni, riflessioni. Prevalgono in larghissima parte i sentimenti di rabbia, di stupore, di incredulità per un verdetto che molti si attendevano diverso, ben pochi coloro che cercano di capire le ragioni della decisione assunta dal collegio giudicante. Sono le reazioni "di pancia" che riempiono, come un diluvio, tutte le pagine social su cui rimbalza la voce della condanna a 16 anni per tre dei quattro imputati. È la piazza virtuale che, più di quella reale, si fa interprete delle considerazioni, il canale preferito per esternare il proprio pensiero, riassumibile in poche parole e battute: "Vergogna", "Disgusto", "Ingiustizia è stata fatta". La sentenza lascia quasi tutti insoddisfatti, emerge questo.

Non c'è spazio per molto altro, anche se di tanto in tanto qualche messaggio invita pacatamente a ripercorrere i problemi e i disagi che in quella notte del marzo di due anni fa hanno portato ad un tragico epilogo. Ma sono bocche rare, perché è il momento di gridare altro. Raggiungiamo telefonicamente il sindaco Giuseppe Morini e le sue dichiarazioni sono l'emblema di tutta quella che, con un eufemismo, si può definire perplessità: «Sembra che giustizia non sia stata fatta, guardando il tenore delle pene inflitte. Siamo basiti, interdetti ecco... Pare una condanna lieve, in rapporto alla gravità dei fatti e all'efferatezza di quanto successo quel giorno.

Certo non sono io, non siamo noi a dover giudicare, forse non sono state raccolte le prove necessarie per sostenere le accuse del pm, ma permettetemi di dire che ci si aspettava una pena più severa. Non hanno avuto neppure il massimo previsto in caso di omicidio preterintenzionale». E conclude: «Condivido in pieno il pensiero della madre di Emanuele.
Venerdì questo ragazzo è stato ammazzato una seconda volta». Intanto, questa mattina, alle ore 10, nella chiesa parrocchiale di Maria Santissima Regina, a Tecchiena Castello, si è celebrata una messa a ricordo del giovane Emanuele.

È mancata la pistola fumante. La prova schiacciante che poteva portare la Corte d'assise a sposare le tesi della procura dell'omicidio volontario. Chiamata a decidere la sorte dei quattro imputati per l'omicidio di Emanuele Morganti, la giuria popolare ha derubricato il reato contestato dai pubblici ministeri da omicidio volontario a preterintenzionale. La Corte, in attesa di leggere le motivazioni e capire il percorso seguito, ha stabilito che Michel Fortuna, Mario Castagnacci e Paolo Palmisani, i tre condannati a sedici anni ciascuno, non avevano l'intenzione di uccidere il ventenne di Tecchiena. In più i giudici hanno pronunciato una sentenza di assoluzione per Franco Castagnacci. Subito dopo si è scatenata la reazione di rabbia di cui ne hanno fatto le spese gli avvocati degli imputati all'uscita del palazzo di giustizia.

Aspettative deluse
La pronuncia è stata difforme rispetto alle richieste di condanna avanzate dai pubblici ministeri Giuseppe De Falco e Vittorio Misiti. I pm, decisi nel sostenere l'omicidio volontario, considerato che Emanuele è stato picchiato in tre fasi distinte, fino a fiaccarne la resistenza e renderlo impotente di fronte agli ultimi colpi, fino alla caduta fatale contro il montante della Skoda, avevano chiesto l'ergastolo per Fortuna e poi a scendere 28 anni per Mario Castagnacci, 26 per Palmisani e 24 per Franco Castagnacci. La pena irrogata è vicina al massimo previsto per l'omicidio preterintenzionale. Motivo per cui, alla fine, possono dirsi scontenti quasi tutti. Da una parte la procura e la parte civile che, dopo aver studiato le motivazioni, con tutta probabilità proporranno appello, e dall'altra le difese dei tre condannati che contano, sempre in appello, di vedere ridimensionate responsabilità e, conseguentemente, pena finale.

Parla il procuratore
C'è amarezza, mala consapevolezza di aver fatto le scelte giuste per arrivare alla condanna dei responsabili dell'omicidio di Emanuele Morganti. Il procuratore di Frosinone Giuseppe De Falco, da domani procuratore di Latina, commenta con serenità la sentenza della Corte d'assise. «Prendiamo atto con molta pacatezza, mai come in questo caso, della sentenza –dice De Falco – Bisogna attendere le motivazioni per capire il percorso argomentativo che ha portato alla derubricazione del reato da omicidio volontario in omicidio preterintenzionale, con l'esclusione delle aggravanti e l'assoluzione di Franco Castagnacci». Un caso che ha fortemente impegnato la procura.

«Obiettivamente era un caso molto complicato anche sotto il profilo giuridico. Noi siamo convinti della bontà delle nostre scelte, altrimenti non le avremmo fatte e non avremmo fatto quelle richieste». Ha qualcosa da rimproverarsi? «Ripeto, siamo convinti della bontà delle nostre scelte. Non ho nulla da rimproverarmi. Le indagini sono state rigorose, come la conduzione del dibattimento e le richieste di condanna. Molto complessa è stata la ricostruzione del fatto. Del resto anche nella requisitoria abbiamo affrontato alcuni aspetti quali le aggravanti e l'omicidio preterintenzionale». Si sente di dire qualcosa alla famiglia Morganti? Loro hanno speso delle belle parole per l'operato della procura. «Ho detto tutto incontrandoli personalmente le scorse settimane e ieri quando ho sentito l'avvocato Enrico Pavia. Abbiamo avuto sempre il loro sostegno.
Hanno detto di noi cose lusinghiere e toccanti». Farete appello? «Dobbiamo leggere le motivazioni. Ovvio che valuteremo».

Un processo complicato
Il processo come le indagini non sono state semplici. Seppure queste ultime si siano subito indirizzate su una traccia ben precisa. In fin dei conti quel muro di omertà con cui si sono scontrati carabinieri e procuratori alla fine ha retto. Innanzitutto, come rilevato dallo stesso De Falco, di quella notte non esiste nemmeno un video. Possibile? Molto strano. Gli investigatori hanno acquisito 166 testimonianze. Solo un pugno di ragazzi si è presentato spontaneamente dai carabinieri quella notte stessa del 24 marzo 2017. E sono queste – come indicato da più parti nel processo – le deposizioni genuine. Di questi 166 la procura ne ha indicati 85 come testimoni. Le loro versioni (alcuni l'hanno cambiata più volte) sono state molto diverse l'una dall'altra, comprensibile in un clima di grande confusione.

I più piccoli (alcuni erano minorenni o da poco maggiorenni) si sono sentiti intimoriti. Non è stato semplice dipanare la matassa e valutare quali deposizioni erano genuine (perché provenienti da fonti neutre o comunque terze) e quali, invece, dettate dalla necessità di coprire qualcuno. Tante deposizioni sono risultate reticenti (due testi indagate in aula), alcune false (per false informazioni ai pm è stato aperto un fascicolo a parte). E questo è stato uno dei limiti cheha condizionato l'inchiesta. I pm hanno selezionato le deposizioni più chiare o parti di altreche avevanouna coerenzalogica o comunque in linea con quanto già acquisito. In una condizione del genere non è stato facile portare avanti la tesi dell'omicidio volontario.
E con le difese pronte a evidenziare ogni incoerenza delle deposizioni.

Evidentemente – ma bisognerà attendere le motivazioni per capire – la Corte ha ritenuto che la violenza di per sé non è bastata (il capo di imputazione parla di «escalation di violenza e ferocia») per dimostrare l'intento omicida. La procura ha insistito sui tre momenti in cui Emanuele è stato picchiato, sul suo sfinimento, sull'esser stato portato in un punto senza via d'uscita, sul fatto che ormai non si difendeva più. D'altro canto i difensori hanno rimarcato i risultati dell'esame autoptico, sostenendo che se non ci fosse stato l'urto con la Skoda forse – come ha concluso la replica l'avvocato Massimiliano Carbone – «non saremmo qui oggi».

Il movente
È mancato un movente. La procura ha insistito a lungo, in ogni direzione.Ha investigato la pista della droga, ma da questo punto di vista non è emerso niente. Ha puntato sulla vendetta (ancora venerdì la madre di Emanuele ricordava l'episodio del figlio intervenuto per aiutare una ragazza aggredita in piazza qualche tempo prima e che avrebbe scatenato a distanza la reazione degli imputati), ma anche qui senza approdare a nulla di dimostrabile in aula. Alla fine è rimasta l'aggressione per futili motivi, partita da «un banale litigio», come recita il capo d'imputazione, e sfociata «in una sorta di esaltazione collettiva con intenti emulativi del comportamento altrui». In pratica, per la procura chi ha aggredito Emanuele voleva rivendicare il proprio ruolo sulla piazza. Il dominio sul territorio. E anche questo è stato terreno di scontro con le difese che hanno praticamente vivisezionato il capo d'imputazione.

La giuria popolare
I procuratori e la parte civile (rappresentata dall'avvocato Enrico Pavia) hanno provato a parlare al cuore dei giudici popolari, toccando argomenti sensibili. E chissà se, da questo punto di vista, non abbia inciso il fatto che i giudici laici erano in prevalenza uomini, con una sola madre di famiglia. L'unica forse che poteva condividere quei sentimenti con mamma Lucia, che, pur stravolta, venerdì ha avuto la forza di dire: «Andrò sulla tomba di mio figlio e gli dirò: "amore di mamma, non è vero che sei morto». Del resto quella frase, a due voci con la figlia Melissa, «L'hanno ammazzato una seconda volta», è un sentimento condiviso. Condiviso in primis dalla sorella di Emanuele che dice:«La vita di una ragazzo di vent'anni non può valere sedici anni».

di: Raffaele Calcabrina