Da una parte c'è l'incapacità di Nicola di «riuscire a governare i propri impulsi violenti», dall'altra «l'estrema pericolosità sociale dell'indagata». In mezzo, un mare di ipotesi e di bugie sulla morte del piccolo Gabriel ucciso mercoledì per asfissia.

Quel comportamento innaturale contestato dall'accusa al padre, Nicola Feroleto; quel non aver impedito che suo figlio fosse strangolato da Donatella lo rende, per il gip Scalera, colpevole allo stesso modo di una mamma reo confessa. «Le modalità esecutive e la natura della vicenda mostrano l'incapacità dell'uomo di riuscire a governare i propri impulsi violenti: già l'essersi astenuto dal proteggere il figlio dall'azione di strangolamento della madre - scrive il dottor Scalera - equivale a una sostanziale adesione all'infanticidio che l'indagato, in ogni caso, non ha minimamente provato a interrompere».

Sarebbe questa brutalità a sostanziare i gravi indizi di colpevolezza, a rendere necessaria l'applicazione della misura cautelare in carcere nei confronti di Nicola Feroleto. Ipotesi che farebbero da contraltare con altri elementi raccolti dai carabinieri, in grado di descrivere un clima di violenza e di paura.

La ricostruzione
La presenza di Nicola in via Veglia, la stradina attigua all'abitazione del piccolo Gabriel dove presumibilmente ha trovato la morte, è confermata nelle parole di Donatella in una delle tante versioni fornite agli inquirenti. Versione che lui nega, poi cambia, poi rinnega ancora.

Ascoltata nuovamente dal pm il 19 aprile scorso, dopo l'udienza di convalida, Donatella - che avrebbe chiarito in modo lucido tempi e modalità dell'infanticidio - indica la presenza di Feroleto sul posto. Si sarebbero dati appuntamento alle 14.15 in via Veglia. Poiché il bambino piangeva il padre gli avrebbe dato due schiaffi, infastidito perché non erano riusciti ad avere un rapporto sessuale. «Ci siamo visti ma nel pomeriggio non abbiamo fatto nulla perché il bambino piangeva e lui gli ha dato due schiaffi» dirà lei. Poi, continua ancora la ventottenne, scende dall'auto e si dirige col bimbo verso il prato, seguiti - racconta ancora la donna - da Nicola. È sempre lei a chiarire che il quarantottenne non sarebbe intervenuto ma anzi avrebbe sussurrato «Vi levo dal mondo», per poi allontanarsi a bordo dell'auto.

Lei ad escludere pure un accordo "preventivo": «No, lui non mi ha detto nulla e io ero già arrabbiata e nervosa» facendo cadere l'ipotesi di un suo intervento diretto: «Un po' guardava e poi si girava. Prima guardava in aria, poi verso la macchina, poi di lato... No, lui non ha fatto nulla perché non gliene importa. Il bimbo è stato ucciso da me. Lui non gli avrebbe messo una mano addosso per non essere incolpato». Ma le versioni, tante, anzi troppe, rese agli inquirenti sia da lei che da lui, fanno fatica a stare insieme. Così ogni cosa detta smentisce la successiva, non permettendo di far capire come siano andati realmente i terribili fatti finiti sotto la lente.

Diversa da tutte le versioni rese sarebbe - poi - quella della nonna di Gabriel, la signora Rocca, che nel ricostruire i momenti successivi alla morte del bimbo avrebbe raccontato di aver visto uscire Donatella e il suo nipotino nel primo pomeriggio, di averli visti salire sulla Punto di Nicola. Poi, dopo un'ora e mezza, di aver visto Donatella rientrare con Gabriel tra le braccia urlando di essere stati investiti. Versione poi cambiata ancora: «Abbiamo fatto un guaio, Nicola e io. Abbiamo ammazzato Gabriel, lo abbiamo soffocato tutti e due - avrebbe confessato la ventottenne alla madre rientrando a casa con il piccolo forse già morto - Ma non dire niente che stava pure Nicola. Non dire niente che stava pure lui, perché è capace di ucciderci o di "appalarci"».

A non coincidere né orari né versioni; né fatti né testimonianze rese. Ricostruire il quadro complessivo è difficilissimo: ogni elemento cancella e sposta il successivo, rende colpevole o meno gli indagati nel tentativo affannoso di dare un luogo e un tempo certi ma non una spiegazione a questo abominio. Un compito arduo, ma all'altezza dell'esperienza e dell'intuito degli uomini del capitano Mastromanno della Compagnia di Cassino e a quelli del tenente colonnello Gavazzi, agli ordini del colonnello Cagnazzo, coordinati dal sostituto procuratore Valentina Maisto.