Ora una data c'è, quella 25 ottobre prossimo. Anche il luogo e l'ora: il tribunale di Velletri, alle 11. Sarà allora che, con la calendarizzazione delle udienze, inizierà il processo sui veleni che hanno ammorbato per decenni le acque del Sacco, la sua valle e i suoi abitanti.

Alla sbarra dovranno comparire il direttore dello stabilimento della Centrale del latte di Roma, quello dello stabilimento Caffaro Srl di Colleferro tra marzo 2001 e maggio 2005, il legale rappresentante e il responsabile tecnico del Consorzio Csc di Colleferro. Per tutti le accuse sono di inquinamento ambientale, avvelenamento di acque, disastro colposo e cooperazione in delitto colposo.
La vicenda è quella dell'ormai celebre inquinamento da Beta-Hch (betaesaclorocicloesano), il temibile sottoprodotto dell'insetticida lindano, una sostanza altamente tossica, molto stabile e difficilmente degradabile tanto da accumulrasi nel lungo periodo nel suolo, nei vegetali e anche nei tessuti animali, uomo compreso. Lo confermano le analisi effettuate su una vasta fetta di popolazione residente lungo il corso del fiume che hanno rilevato contaminazioni significative da Beta-Hch.

Nel dicembre scorso la vicenda processuale era approdata alla Corte costituzionale dopo il rinvio a giudizio degli imputati avvenuto nel maggio 2014 al tribunale di Velletri. Gli avvocati difensori dei quattro dirigenti avevano infatti opposto questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 157 comma 6 (l'ex legge Cirielli). Questioni che i giudici della Consulta hanno ritenuto infondate. Il fascicolo è così tornato al tribunale di Velletri che ha fissato l'avvio del procedimento.

Numerose le parti civili, con l'associazione Retuvasa in prima fila insieme a decine di persone contaminate dal Beta-Hch, il Ministero dell'ambiente e la Città metropolitana di Roma capitale, all'epoca Provincia di Roma. «Ci auguriamo che la calendarizzazione delle udienze nei tempi sia più stretta di quanto sia stata nel passato e che si possa giungere finalmente ad una sentenza per il primo grado di giudizio - commentano gli attivisti di Retuvasa - Ricevere un risarcimento è ben poca cosa rispetto al disastro cagionato e, se gli imputati fossero ritenuti responsabili, si chiuderebbe almeno la prima fase di una vicenda che ha lasciato un segno indelebile nel nostro territorio».