«Non è stato un solo omicidio. Ma cinque. Con la morte di Emanuele la nostra vita è cambiata. E nessuno potrà riportarcelo indietro. In questo ultimo anno è come se avessimo vissuto una vita parallela. Adesso sappiamo che sarà ancora più dura. Che verranno momenti difficili, ma li affronteremo. E speriamo che venga fatta giustizia per mio fratello». Parole forti, quelle di Melissa Morganti (che nel parlare di cinque omicidi si riferisce a se stessa, all'altro fratello, al padre e alla madre, di fatto morti nell'animo e nel cuore con Emanuele). Forti come il carattere che sta tirando fuori, seppur non con poche difficoltà, da quando suo fratello Emanuele, poco più che ventenne, non c'è più. Pestato a sangue la notte tra il 24 e il 25 marzo del 2017. Si fa forza Melissa. Non dimentica il rapporto che hanno avuto. Quello non glielo porterà via nessuno. Mai. Si fa forza nell'aula di tribunale, dove sa già che vivrà, insieme alla sua famiglia, giorni ancora più difficili di quello di giovedì scorso. L'avevamo avvicinata subito dopo la notizia della decisione del gup di rinviare a giudizio i quattro imputati per la morte del fratello: Mario e Franco Castagnacci, Michel Fortuna e Paolo Palmisani. Ci aveva detto che non se la sentiva di parlare. Era stata una giornata intensa. Ieri, come ci aveva promesso, ha risposto alla nostra telefonata.

Giovedì l'abbiamo vista commossa...
«Non è semplice raccontare le sensazioni che ho provato. Sembra una frase fatta, ma veramente è stato un mix tra tensione ed emozioni. In aula si ribadivano alcuni dettagli della morte di Emanuele, con la presenza anche di chi è imputato. Sono state tirate in ballo diverse dinamiche dell'episodio. È stata dura sentir parlare di Emanuele come vittima di quello accaduto, sentire le ragioni di chi sembrava far passare per innocente qualcuno degli imputati. Non è stato semplice rimanere con i piedi lì dentro, essere attenti, piuttosto che estraniarci. In parte volevamo essere attenti, in parte che finisse subito».

A settembre inizierà il processo…
«Immagino che le prossime udienze del processo saranno ancora più difficili dell'ultima. Quella di giovedì scorso è stata sicuramente una piccolissima vittoria, se così si può definire, dopo le ultime vicissitudini e i rinvii. Finalmente, almeno, abbiamo una data in cui si inizierà, speriamo, a tirar fuori quella che dovrebbe essere la verità».

Vi aspettavate la decisione del gup?
«Lo speravamo. Diciamo che quando il giudice ha detto le fatidiche parole abbiamo tirato un sospiro di sollievo».

Cosa vi attendete adesso?
«Da quanto ho percepito il giudice e la procura hanno fretta a iniziare e questo mi fa ben sperare. Vuol dire che l'attenzione all'indagine da parte della giustizia è tutta concentrata su questo caso. Credo si sia perso tanto tempo per le richieste fatte dalla difesa. Mi aspetto una dura lotta, perché se è stata dura giovedì quando abbiamo ascoltato quelle poche motivazioni secondo le quali per i difensori degli imputati non c'è stato il reato per cui sono accusati (omicidio volontario, ndr) immagino che lo sarà ancor di più rivivere ogni seduta. Saranno, credo, oltre 150 i convocati, e ci vorrà più di un'udienza per ascoltare tutti. Per ogni udienza ci toccherà avere non una corazza di ferro, ma di acciaio inossidabile, perché ne sentiremo di tutti i colori, ci toccherà rivivere sulla bocca anche di estranei a Emanuele quello che è accaduto».

Sono centinaia le persone convocate…
«Sì. Persone che quella sera hanno capito che la situazione stava degenerando. Una frase che accomuna tanti testimoni. Io mi rendo conto che non è semplice intervenire, trovare il coraggio, forse neanche io mi sarei immischiata, però avrei chiesto aiuto, fatto una telefonata. Forse mio fratello sarebbe ancora qui, malconcio, ma qui».

Che cosa teme?
«Sono consapevole che gli avvocati si batteranno per la pena minore e questo già mi fa male, perché, lo so che non sono un giudice, ma si è colpevoli sia se ammazzo con le mani, sia con una pistola. Si vorrà trovare una strategia. Ma quale strategia... Mio fratello aveva venti anni». La voce di Melissa si interrompe per pochi secondi.

Sono passati quindici mesi da quando Emanuele non c'è più.
«Non ci crederà, ma ciò che mi fa rendere conto del tempo passato sono i momenti in cui mi risuona in testa la voce di mio fratello e mi ricordo che non la posso più ascoltare, se non da un audio, un video sul telefono, altrimenti le direi che mi sembra che sia successo ieri».

Adesso giustizia...
«Qualcuno, ieri (giovedì, ndr) mi ha chiesto se ci aspettiamo giustizia e non vendetta. Io non ho risposto. Adesso mi sento di dire che credo che una giustizia vera non possa mai esserci. Una pena che possa eguagliare la morte di mio fratello. Non esiste. Neanche la pena di morte, se potesse essere applicata, perché mio fratello, comunque, non tornerebbe. Ora mi aspetto che possa venire fuori, nero su bianco, la verità. E che possa servire anche di esempio affinché non accada più. Io non posso vedere più persone litigare. Sono rimasta scossa dalla violenza, dalla ferocia. Da come ho visto mio fratello quella notte. Mi sono rimasti strascichi a livello psicologico. Cerchiamo di aiutarci in casa, di farci forza. Quel giorno non c'è stato un omicidio, ma cinque».

Molti amici di Emanuele vi sono sempre vicini.
«Sono un toccasana per noi. Significa che non siamo soli e che continuano a far vivere Emanuele. Per tutti è il ragazzo di venti anni ammazzato ad Alatri. Ma Emanuele era molto altro. E la presenza di chi è cresciuto con lui è per noi come averlo accanto».

Come era suo fratello?
«Lo sta chiedendo alla sorella che si scioglieva con un suo sorriso. I nostri genitori hanno sempre lavorato e io sono stata un po' la sua "mammina". Al di là del fratello più piccolo da viziare, coccolare, era un compagno, un amico. Abbiamo avuto sempre un rapporto meraviglioso. Eravamo sempre insieme. Io per lavoro mi sono spostata spesso per l'Italia, e lui, nelle pause scolastiche, mi seguiva. L'unica cosa che mi dà forza è il fatto di non avere nessun rimorso e nessun rimpianto perché gli ho dato sempre tutto e so di avergli fatto sempre capire e sapere che era la persona più importante della mia vita. Emanuele aveva un sorriso contagioso. Era educato. Aveva terminato la scuola un anno prima di morire. Aveva iniziato a lavorare ed era orgoglioso di non gravare sulla famiglia. Era un angioletto con le corna. Io scherzosamente lo chiamavo così, perché era buonissimo, ma orgoglioso. Ha ereditato la mia testardaggine. E aveva un cuore grande».