Duplice omicidio nella cava di Coreno, per i giudici d'appello Di Bello «sparò con micidiale precisione. Sparò per uccidere, come già ritenuto, con valutazione (che merita di essere condivisa) del giudice di primo grado. E sparò perché impugnava l'arma (che non avrebbe avuto il tempo di estrarre una volta colpito) già pronto a usarla».
Per i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Roma, presieduta dal dottor Calabria, non vi è alcun dubbio: il quarto uomo sulla scena del delitto non c'era e Giuseppe Di Bello, condannato a trent'anni, non avrebbe reagito per legittima difesa. Di Bello, unico imputato della morte dei due imprenditori di Castelforte, avrebbe fatto fuoco non a terra, esplodendo un colpo a scopo intimidatorio «per far capire che proseguire nella sparatoria poteva essere pericoloso». Per i giudici capitolini è compatibile la ricostruzione che le vittime, i fratelli Pino e Amilcare Mattei (rappresentati dall'avvocato Ranaldi) volevano identificare l'autore dei continui furti di gasolio e indurlo ad arrendersi e «non certo ucciderlo». Di Bello era, attinto durante la fuga, consapevole di trovarsi in una situazione «in cui veniva a fronteggiare due uomini armati. I fratelli Mattei, per contro - si legge ancora nelle motivazioni - sino all'esplosione del colpo mortale contro Giuseppino, ignoravano che Di Bello fosse armato. Proprio perché sapeva che i fratelli Mattei erano armati, l'imputato avrebbe potuto e dovuto comportarsi in maniera differente: sparare in aria, ovvero per terra per far capire che a sua volta era armato».
I fratelli Mattei non avevano avuto intenzioni omicide: «Si trattava di onesti imprenditori legittimamente esasperati dal ripertersi dei furti di gasolio e dai continui danneggiamenti e non certo di freddi assassini - scrivono ancora i giudici - Di contro, è certo che tutti i colpi sino al fatale incontro sul pianoro fra Giuseppino Mattei e Di Bello, furono esplosi in aria a scopo intimidatorio».

La sentenza d'appello

Trent'anni a Giuseppe Di Bello, 37 anni di Coreno, unico imputato per la morte di Pino e Amilcare e già condannato in primo grado all'ergastolo. Una decisione, quella presa alla fine di febbraio in appello, che aveva lasciato l'amaro in bocca a tutti, imputato (assistito dagli avvocati Bruna Colacicco e Giuseppe Di Mascio) e familiari delle vittime. Trent'anni di reclusione per l'uomo accusato di aver fatto fuoco contro i due imprenditori di Castelforte per difendere la loro cava: troppi per un uomo che ha sostenuto sin dall'inizio di essersi trovato lì in quella notte (tra il 6 e il 7 novembre del 2014) per portare l'acqua alle mucche, attratto più a valle da alcuni rumori, "casino" come dirà lui. Troppo pochi per i familiari di ben due vittime, che difficilmente sono riuscite in aula a trattenere lacrime e dolore: «Questa non è giustizia» aveva urlato dopo la lettura del dispositivo uno dei parenti presenti insieme a un centinaio di persone.
Le motivazioni d'appello, nonostante l'univocità sull'assenza del quarto uomo all'interno della cava, lasciano - secondo gli avvocati dell'imputato - comunque molti coni d'ombra: primo fra tutti, l'assenza di tracce biologiche sulle armi e sui vestiti delle vittime (legate alle condizioni meteo avverse). Poi ancora, la compatibilità assoluta della figura ripresa dalla fototrap con quella del Di Bello e la mancata esecuzione dello stub sulla pistola, la traiettoria dei colpi. Di Bello, comunque, provò a fuggire: l'intento iniziale non era il duplice omicidio e per questo la pena è stata ridotta limiti massimi. Ora si lavora al ricorso per Cassazione.