Per pagare e morire c'è sempre tempo. Recita così un antico adagio. Per evitare di farlo ogni scusa è quella buona. È quanto deve aver pensato una donna che, nell'impugnare davanti al giudice le bollette dell'acqua, ha sostenuto una tesi alquanto singolare. Ovvero che, vivendo in un immobile abusivo, non poteva esserle fornita l'acqua e per questo non avrebbe dovuto nemmeno pagarla. Ma una tesi del genere non è passata, anche perché formulata per la prima volta in appello. Da qui la decisione della Corte di Cassazione di respingere il ricorso, anche nella parte in cui l'utente contestava di non aver sottoscritto il contratto. Quanto al primo motivo, i giudici della Suprema corte hanno evidenziato che il ricorso faceva riferimento alla norma che «vieta alle aziende che gestiscono il servizio idrico di somministrare acqua ad immobili per i quali non siano stati indicati, nei contratti d'utenza, i "titoli abilitativi edilizi rilasciati dalle competenti autorità locali", che nel caso mancava ogni documentazione attestante l'avvenuta stipula di un contratto d'utenza tra le parti in causa; che di conseguenza il rapporto di somministrazione, che il tribunale aveva ritenuto stipulato per facta concludentia, doveva ritenersi nullo ai sensi dell'articolo 1350 c.c. ovvero immeritevole di tutela ai sensi dell'articolo 1322 c.c.».
Per i giudici «la doglianza è, invero, singolare: essa sottopone infatti a questa Corte il caso d'una persona che in buona sostanza, dopo aver goduto per sua stessa ammissione della distribuzione dell'acqua, pretenderebbe di non pagare ipropri consumi sostenendo che, vivendo in un immobile abusivo, non poteva esserle somministrata l'acqua potabile». Per il tribunale la doglianza non è accoglibile perché formulata per la prima volta in appello ed «è altresì inammissibile per difetto di interesse: se, infatti, il contratto fosse dichiarato nullo, la somministrazione di acqua pur incontestabilmente avvenuta...., sarebbe sine causa, e questa dovrebbe quindi restituire il controvalore all'Acea».
Motivo manifestamente infondato anche quello relativo alla mancanza di un contratto scritto tra le parti. «Il rapporto tra l'Acea - scrivono i giudici - e il precedente gestore del servizio idrico» non necessitava «di nessuna forma scritta» in quanto «la successione degli enti gestori del servizio idrico alle amministrazioni locali è avvenuta ope legis». E «né in questa sede - si legge nelle motivazioni - è stato mai dedotto che l'Acea abbia preteso dall'utente prestazioni diverse e più onerose di quelle contrattualmente dovute». Da qui il rigetto del ricorso con il quale l'utente chiedeva di dichiarare nullo il contratto e la restituzione di quanto già versato.