Cerca

L'intervista

I giovani? Soli e senza una guida

I ragazzi e gli strumenti giusti per gestire emozioni e responsabilità. Come si è trasformato il rapporto con i figli. La dottoressa Marcella Ciapetti analizza il cambiamento del ruolo genitoriale tra assenze e nuove fragilità

I giovani? Soli e senza una guida

Laureata in scienze dell’educazione, specializzata in pedagogia clinica. Professionista della relazione d’aiuto e anche scrittrice. Con la dottoressa Marcella Ciapetti abbiamo parlato del rapporto tra genitori e figli, di come è cambiato e di quello che si può e si deve fare.

Il ruolo dei genitori rispetto al secolo precedente è cambiato. Una crisi dell’affermazione genitoriale o uno scioglimento delle gerarchie familiari?

«Un po’ entrambe le cose, i tempi sono naturalmente cambiati. Ad oggi i giovani utilizzano l’intelligenza artificiale come supporto emotivo, per ricevere consigli su scelte importanti. Scelgono l’intelligenza artificiale perché è sempre disponibile, non ti giudica e ti capisce. Tanti anni fa il ruolo dei genitori era differente: c’era la presenza, anche se, tante volte, al livello emotivo, era carente o disfunzionale. Oggi la presenza fisica è carente, e quando c’è, il telefono diventa un elemento di distrazione. Lavorando con i giovani mi riportano tutti gli stessi disagi: non so con chi parlare, mi sento
solo, non mi ascoltano. È cambiato molto il ruolo del genitore, la responsabilità genitoriale è stata affidata a qualcosa che non ha un cuore».

Cosa possono fare gli adulti?

«Il punto di partenza è riflettere su quale sia la modalità di comunicazione da privilegiare quando si trasmette un messaggio ai giovani. Sicuramente non con l’autorità, non con l’imposizione, non con quelle forme di violenza, che noi ad oggi non vogliamo riconoscere come tali, perché le riteniamo ancora educative. Il tono della voce, lo sguardo, tutto ciò che è comunicazione non verbale, ha un impatto enorme».

L’età adolescenziale negli ultimi decenni si è anticipata, è segnale di evoluzione della società?

«Forse di involuzione. Si è abbassata molto l’età per tante cose e la responsabilità è da attribuire alle figure di riferimento: cioè da tutti noi, perché ognuno di noi può essere una figura di riferimento, in quanto adulto. Accade tutto prima e noi facciamo fatica a stabilire quei confini necessari per orientarsi nel percorso di crescita. Noi siamo una bussola nella vita di un soggetto in crescita, se la bussola non segna coordinate chiare, le rotte sono confuse e si può viaggiare in territori troppo grandi per l’età, grandi per gli strumenti che si hanno a disposizione. Il problema è che i genitori oggi non dicono di no perché questo significa riuscire a dover gestire le criticità legate al capriccio, alla forza di essere coerenti, senza essere impositivi. Non si dice di no in quanto richiede impegno, tempo e energie che noi oggi forse non abbiamo perché presi da tantissime altre cose. Nel passato non c’erano le realtà che ci sono oggi. Purtroppo con i mezzi tecnologici va tutto troppo di corsa e non riusciamo ad arginare il flusso di stimoli e informazioni che riceviamo».

La scuola riesce a educare i ragazzi nella sfera psico-affettiva?

«In una percentuale molto bassa. Vivendo la realtà scolastica, anche il lavoro di chi insegna oggi è complesso. Rimane veramente poco tempo da dedicare a un’educazione psico-affettiva, e spesso il sistema non lo permette. Oltretutto la scelta di insegnare dovrebbe essere una missione, oggi più che mai. Ma tante volte questo non accade. È un lavoro di grandissima responsabilità umana e sociale, soprattutto perché si contribuisce alla formazione del futuro di un adulto. All’interno di questo sistema disfunzionale ci sono delle figure che ci provano con il cuore, ma sono poche gocce, troppo poche per la situazione di gravissima emergenza pedagogica che stiamo vivendo».

Come agire affinché la violenza, per i giovani, non diventi normalità?

«C’è bisogno di presenza. Escludendo ovviamente casi specifici riferibili a difficoltà oggettive. Non bisogna lasciarli soli, esposti a una mole di informazioni incontrollate. Gli stessi videogiochi hanno contenuti violenti e talvolta i genitori non sanno neanche con cosa giocano i figli, non c’è nessuno che vada a selezionare i contenuti. Non c’è più controllo e i risultati li stiamo vedendo. È necessaria una rivoluzione culturale: c’è bisogno di accompagnare le famiglie, di cambiare l’organizzazione delle principali agenzie educative. La speranza, in questa situazione preoccupante, sono i giovani: lo vedo lavorando con loro, ti sanno dare tantissimo, e ti sanno dare quando tu riesci a trasmettere loro attenzioni, tempo, riconoscimento. Io ho imparato tantissimo da loro».

Qual è la cosa più gratificante del suo lavoro?

«Il tempo con i ragazzi, le esperienze e le condivisioni. Ricevere da loro un messaggio all’improvviso in cui mi ringraziano, mi rendono partecipe di un loro successo. Toccare con mano i risultati che abbiamo conquistato, camminando insieme, è il riconoscimento più grande. La cosa più bella è avere la consapevolezza che ci sono ancora cuori che battono, che sono vivi e che non tutto è spento».

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione

Ultime dalla sezione