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L'intervista

Violenza sulle donne. «Molte non denunciano»

Oltre 500 le richieste di aiuto. L'85% con figli minori. Il punto con Patrizia Palombo, presidente del Telefono Rosa

patrizia palombo

Patrizia Palombo, presidente dell'associazione Telefono Rosa di Frosinone

"E ti diremo ancora un altro... forse. Potrebbe essere anche no". Al posto del "sì" della canzone "Quello che le donne non dicono" Fiorella Mannoia, ormai da anni, sceglie una versione aggiornata che sta ribadendo anche durante i concerti di questi giorni, in occasione della giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Un finale che non l'ha mai convinta e che ha scelto di dedicare a tutte le vittime che continuano a riempire le pagine di cronaca nera.

Dal primo gennaio ad oggi sono state 106. Una donna ogni tre giorni viene uccisa per mano di un compagno, di un marito o di un ex. Sono circa il 40% di tutti gli omicidi commessi in Italia. È ampiamente dimostrato, inoltre, che ormai un'organizzazione sociale fondata sulla diseguaglianza dei rapporti di potere tra uomini e donne, favorisce i femminicidi e le violenze contro le donne in generale. Ma qual è la situazione in Ciociaria? Abbiamo fatto il punto con Patrizia Palombo, presidente del Telefono Rosa di Frosinone. L'associazione ha iniziato la sua attività nel territorio dal 2008 per aiutare e sostenere le donne vittime di violenze, abusi e maltrattamenti.

Chi è che si rivolge alla vostra associazione?
«Nell'ultimo anno a chiamare sono state soprattutto donne molto giovani, dai 18 ai 33 anni e questo è un dato molto preoccupante. Ma non mancano casi di donne dai 40 ai 50 anni e di over 60. Nel corso del 2020 abbiamo ricevuto oltre 544 richieste di aiuto telefoniche e per email, delle quali 327 si sono concretizzate con l'arrivo in sede. L'85% ha figli minori per i quali sono state messe in campo le strategie necessarie per affrontare nel giusto modo le problematiche riscontrate. Il 10% ha figli a carico maggiorenni e il 5% senza. Solo il 32% ha conseguito una laurea, il 38% il diploma di scuola superiore e il 30% di scuola media.

Dai dati emerge che le richieste sono tante. Ma troppe donne non denunciano...
«Una persona vittima di violenza su quattro afferma di avere troppa paura della persona violenta. E davanti alla possibilità di affrontare l'iter di una denuncia di avere timore di non essere credute. Per la vergogna, per l'imbarazzo o per sfiducia nella legge e nel caso della violenza nella coppia. Perché amano il partner e non vogliono che venga arrestato. Ma soprattutto per non far perdere la famiglia ai loro figli. Molte donne, inoltre, non considerano la violenza subita un reato, sostengono che si è trattato semplicemente di qualcosa di sbagliato. E soprattutto molte non denunciano perché ancora spaventate di perdere i propri figli. Con la legge 54/2006 è stato introdotto il concetto della bigenitorialità, che nessuno mette in discussione nelle separazioni che avvengono in presenza di buone relazioni nella coppia. Ma che è invece diventato un dogma, un vero e proprio problema nel caso di separazione per violenza sulla donna. Anche questo rende molto più complicato per le donne uscire dalla violenza e prendere una decisione lucida nel denunciare. A questo punto una domanda mi viene spontanea: "Perché in caso di violenza, sono le donne e i loro figli ad abbandonare la casa, il lavoro, i loro affetti, spesso la scuola e rimanere rinchiusi in case protette. Non sarebbe più giusto mettere il loro carnefice in una casa protetta dove è sorvegliato dalle forze dell'ordine nel periodo che va dalla denuncia alla sentenza?».

C'è un caso che l'ha colpita particolarmente?
«Uno degli ultimi che mi ha colpito è stato il caso di una ragazza incinta che si è rivolta a noi perché subiva le più brutte violenze, anche con il bimbo in grembo. Ma devo dire che la forza e la tenacia di quella donna, supportata con grande professionalità dalle nostre esperte, è stata più forte di tutte le violenze. È fondamentale che chiunque si accorga di una violenza parli. Chiamate le forze dell'ordine, segnalate ciò che sta accadendo. E a voi donne dico, non rimanete in silenzio, denunciate, chiamate il 1522 che prontamente vi darà il centro antiviolenza più vicino a voi e una persona esperta e attenta che con professionalità vi darà il suo aiuto».

Quali possono essere le soluzioni per iniziare concretamente a cambiare qualcosa?
«Il mio appello non vuole essere soltanto la doverosa denuncia di quanto sta accadendo sul tema della violenza contro le donne. Bensì vuole riaffermare il necessario impegno di tutti ad attuare in ogni sua parte la Convenzione di Istanbul, a partire da quelle azioni di prevenzione sociale e culturale che da tempo noi stiamo perseguendo con forza e convinzione. Partendo dalla scuola, luogo in cui si formano le generazioni future, introducendo l'educazione di genere, il rispetto e l'uguaglianza tra i sessi. Alle nuove generazioni voglio dire che solo con umiltà e rispetto reciproco il nostro mondo cambierà. Ma non bisogna fermarsi alla scuola, va attuata una vera formazione su questo tema a tutti i livelli. Vanno formati tutti quegli organi che, in caso di violenza, devono interagire per il bene della donna e dei suoi figli. Come servizi sociali, forze dell'ordine, tribunali. È indispensabile che nell'ambito di una collettività si lavori tutti insieme, sia sotto il profilo dei cambiamenti culturali, sia sotto il profilo dei cambiamenti materiali. Perché i cambiamenti di breve respiro sovente tamponano soltanto un'emergenza, quelli più duraturi si possono realizzare solo con il contributo di tutte e di tutti».

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