«Nessuno ha riferito i fatti come realmente accaduti. L'unica persona che avrebbe potuto raccontare quanto successo sarebbe stata proprio la povera Serena Mollicone. Probabilmente è per questo che chi ha ucciso Serena l'ha simbolicamente messa a tacere (le ha "chiuso la bocca"), sebbene non le abbia del tutto impedito di "parlare" attraverso le tracce che il trascorrere inesorabile del tempo e le numerose vicissitudini che si sono susseguite non hanno cancellato. Si può ritenere che la condotta dei Mottola (tutti concorrenti sul piano materiale e morale) sia stata dunque non solo assolutamente non doverosa ma anche caratterizzata da pervicacia e spietatezza, specie nel nascondere quanto realmente accaduto».

È questo uno dei passaggi chiave del ricorso d'appello della procura di Cassino, depositato una settimana fa. Ben 275 pagine, divise in 8 macro parti (l'ultima dedicata proprio alle valutazioni giuridiche e alle conclusioni) in cui la procura affronta i motivi per i quali chiede la totale riforma della sentenza di primo grado, con la condanna degli imputati. Nessuno escluso. Affrontando in modo distinto le posizioni dei singoli, dopo la decisione della Corte d'assise di Cassino.

La sentenza
La sentenza di primo grado dello scorso 15 luglio, lo ricordiamo, aveva assolto con formula piena l'ex maresciallo Franco Mottola, la moglie Anna Maria, il figlio Marco e i due militari Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano. Poi, dopo due rinvii, il deposito delle motivazioni: sarebbe mancata per la Corte d'assise «la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti per cui possa ritenersi provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la commissione da parte degli imputati della condotta omicidiaria». In 236 pagine la Corte aveva condensato le valutazioni affermando che i responsabili sono, dopo oltre 22 anni, sconosciuti: a pesare soprattutto «le impronte dattiloscopiche all'interno dei nastri adesivi che legavano le mani e le gambe di Serena. Impronte ritenute utili per l'identificazione e che non appartengono agli imputati». E l'inattendibilità di Santino Tuzi.

Proprio da Tuzi la procura riparte, rilanciando l'offensiva. Dopo l'ampio spazio dedicato a Tuzi, il pm Beatrice Siravo si sofferma anche su alcuni aspetti preminenti dell'inchiesta come il luogo del delitto, l'arma, i presunti depistaggi e alcuni passaggi definiti nelle controdeduzioni «contraddittori». Nel ricorso d'appello talune deduzioni della Corte vengono definite «illogiche» o «carenti», producendo «una motivazione apparente o mancante». Rilievi critici che attraversano diversi aspetti, almeno una decina: dalle cause e dai mezzi della morte di Serena all'altezza della stessa vittima, passando per le microtracce e le conclusioni dei consulenti.

La figura di Tuzi
La figura del brigadiere Santino Tuzi, il primo che indicò la presenza di Serena in caserma, è come abbiamo più volte ribadito centrale. Diventa focale nelle analisi delle difese di parte civile e dei relativi appelli depositati insieme o a poche ore da quello della procura; baricentrico anche nelle discussioni dei difensori degli imputati. Così nella valutazione della stessa Corte, che nelle motivazioni in più passaggi sottolinea come le accuse invece non siano solide: mancherebbero passaggi logici e certezze scientifiche. Per i giudici Tuzi non avrebbe visto entrare Serena quel giorno in caserma, così come gli ordini di servizio imprecisi non sarebbero contraffatti.

Anche la procura nel dettagliato appello riparte dalle dichiarazioni del brigadiere. «Si impugnano i capi della sentenza che vanno dalla riapertura delle indagini alla valutazione del maresciallo Evangelista; la valutazione della Corte sulla veridicità dell'ordine di servizio e le dichiarazioni di Tuzi del 28 marzo e del 9 aprile del 2008, delle relative trascrizioni in atti e dell'intercettazione tra Tuzi e Quatrale dell'8 aprile» si legge tra i motivi di appello. Dunque il pm Siravo parte proprio dalla «intrinseca attendibilità di Tuzi». Per farlo ripercorre ancora una volta i ruoli all'interno della caserma e i rapporti divenuti aspri, tanto da sfociare poi in querele differenti. La Corte d'assise ritiene nella sentenza di primo grado che Tuzi si sia lasciato "suggestionare" e che avesse timore del maresciallo Evangelista.

«Tuzi non aveva alcun timore del maresciallo, nei cui confronti avanza accuse di peculato esponendosi a una controdenuncia per calunnia, casomai aveva timore di qualche altra cosa» si legge nei motivi d'appello. Il colonnello Caprio - ascoltato all'udienza nell'ottobre 2021 - ha ribadito che la pista della caserma era stata introdotta dal maresciallo a capo della stazione di Arce (Evangelista) e che dopo il suo "bluff" sulla presenza del Ris nell'alloggio a trattativa privata, Tuzi avrebbe ribadito di aver visto Serena quella mattina, «dando concretezza alla pista indicata». Nella descrizione Tuzi ricorda una ragazza con una maglia rossa, capelli lisci e una borsetta (che non sarà mai ritrovata) ma non descrive i piedi: «È evidente che sta parlando di un ricordo personale, perché riferisce di non aver potuto vedere le scarpe e questo particolare corrisponde allo stato dei luoghi poiché dalla sua postazione di piantone, per la presenza di un muretto, questa visuale gli sarebbe stata preclusa» scrive la procura.

Non meno importante nella analisi dei motivi sulla attendibilità di Tuzi, la procura prende in esame la conversazione telefonica tra il brigadiere e la sua amica, Annarita Torriero, quella del 28 marzo del 2008: emerge dalla telefonata una preoccupazione di Tuzi ("mi mettono le manette") non per la lite con Evangelista. Ma «per quella roba di prima...». E il riferimento, nella domanda della donna, è a «quella ragazza». «Questa conversazione non è stata oggetto di alcuna valutazione da parte della Corte che ha semplicemente omesso di valutarla, riferendo solo che, secondo il colonnello Caprio, Tuzi avesse timore» ribatte il pm.