«Indagini da riaprire. L'assassino di Serena è ancora libero». Questo l'appello rivolto, dalla saletta del rinnovato Palazzo della Cultura di Cassino, agli investigatori del palazzo di Giustizia. Per il pool difensivo della famiglia Mottola, a poche ore dal deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado per il delitto di Serena Mollicone, il passaggio ora da non rimandare è quello legato alla ricerca del o dei colpevoli. Dopo l'assoluzione lo scorso 15 luglio dell'ex maresciallo Franco Mottola, della moglie Anna Maria e del figlio Marco nonché dei militari Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale, il pool difensivo coordinato dal professor Carmelo Lavorino ha atteso di conoscere le motivazioni.

Depositate lunedì dopo due rinvii. Con quelle 236 pagine strette tra le mani, i legali e il criminologo hanno ripercorso l'inchiesta ma soprattutto le consulenze proposte. Poi hanno rilanciato: «Ci auguriamo che la procura non proponga appello perché così si perderebbe ulteriore tempo nel dare la caccia al vero assassino». «Ci tengo a precisare - ha affermato l'avvocato Francesco Germani, storico difensore della famiglia Mottola prima di entrare nel vivo dell'incontro - che il risultato ottenuto è frutto di una perfetta sinergia tra l'équipe guidata dal professor Lavorino e i legali».

La teoria ribaltata
La caserma, nelle motivazioni della Corte d'assise di Cassino, non sarebbe il luogo del delitto. La porta non sarebbe l'arma e il movente non coinciderebbe con l'ipotesi di voler denunciare Marco né sarebbero emerse - per i giudici - prove in grado di giustificare l'accusa dei depistaggi a carico dell'ex maresciallo. Nella sentenza di primo grado, dunque, sarebbe stato ribaltato il principale costrutto accusatorio. «La sentenza fa capire che sin dall'inizio viene affrontato un impianto accusatorio, almeno dal 2008 in poi, interessante perché non va a "colpire" un uomo qualunque, un carrozziere come prima era accaduto a Belli. Ma un gruppo di potere, come i carabinieri, che avrebbero organizzato e bramato» ha spiegato il professor Lavorino. «Gli indizi non erano né gravi né precisi, neppure concordanti - aggiunge - A nostro avviso non c'erano proprio perché se noi sulla scena del crimine troviamo l'impronta dell'assassino, questo è un indizio molto forte. Ma se non corrisponde agli indagati o imputati, questo indizio non vale nulla». La sentenza, asserisce ancora Lavorino, avrebbe ripercorso quanto dichiarato nelle loro consulenze a partire dall'assenza dei presunti depistaggi operati dal maresciallo Mottola.

Una divisa da difendere
«La sentenza rende onore alla divisa del maresciallo Mottola. Non perché lo assolve, ma perché rende onore alla sua professionalità ante imputazione - afferma l'avvocato Francesco Germani - Abbiamo sentito parlare per tutti questi anni di un infingardo e un disonorevole e disonorato rappresentante delle istituzioni perché avrebbe fin dal primo minuto depistato le indagini. Sin dalla notte in cui avrebbe posizionato il telefonino di Serena nell'appartamento di Guglielmo, sin dalla convocazione dello stesso in caserma addirittura durante i funerali della figlia. Tutto ciò, come emerso dal processo, non è stato. Elementi che hanno infangato la sua divisa prima ancora dell'uomo. Una sentenza che deve restituire pieno rispetto all'uomo e al militare, ma soprattutto pieno onore alla sua divisa. Lui non ha mai voluto discolparsi, perché anche su nostro suggerimento, ha voluto che a parlare fosse il processo. Ora il processo lo ha fatto, oltre ogni ragionevole dubbio». «Per tutti questi anni è stato gettato fango contro l'intera Arma dei carabinieri. Poi contro il Comune di Arce. Noi in un colpo solo abbiamo tolto questo disonore» ha puntualizzato Lavorino.
«Gran parte del processo si è basato su aspetti fattuali: sulla verifica, dunque, in ambito dibattimentale di quelli che sono stati portati in aula come elementi di prova ma che non sono mai divenuti tali - ha aggiunto l'avvocato Enrico Meta - Sono rimasti solo indizi, grazie anche alle competenze del pool guidato dal professor Lavorino, che hanno superato "l'oltre ogni ragionevole dubbio". Non è stata rilevata la loro precisione, gravità e concordanza sia nel complesso che se presi singolarmente. Si è cercato di adattare i fatti alla teoria, a mio parere. Un esempio per tutti? I depistaggi. Il maresciallo Mottola ha eseguito gli ordini della procura di allora, non ha agito di certo in modo autonomo». «L'estraneità dei Mottola viene affrontata nella sentenza in tutti gli aspetti possibili - afferma poi l'avvocato Mauro Marsella - non da ultimo sotto un aspetto dirimente: chi è responsabile dell'omicidio ha lasciato le impronte. Che non sono degli imputati. La Corte ricostruisce la giornata di Marco, Anna Maria e di Franco Mottola. Un'analisi da cui emerge un alibi assolutamente solido che allontana tutti dal fatto storico legato all'omicidio di Serena. Quanto alla procura, con una sentenza così pregnante, così puntuale, precisa e così trasversale auspico che davvero decida di non appellarla. Ma questa è una determinazione che spetterà solo alla procura stessa. Nel caso dovessero fare appello saremmo pronti a difenderci anche in quella sede e a dimostrare l'estraneità totale degli ex imputati».

Mancherebbe il movente
La caserma per il pool difensivo non è il luogo del delitto, la porta dell'alloggio sfitto a trattativa privata non sarebbe l'arma utilizzata dall'assassino. Non solo. In questa analisi, per il pool tecnico-legale, mancherebbe anche il movente. «Il primo movente giunto in aula è che Serena viene uccisa per denunciare Marco per la droga: nessuno dei testimoni lo sostiene - spiega l'avvocato Germani - non ci sono supporti probatori». «Serena non viene uccisa perché va in caserma per denunciare Marco? Non ci entra proprio in caserma. Né ha senso parlare dei libri: perché dovrebbe essere stata uccisa per riprendere i libri lasciati nell'auto? - continuano dal pool - Parliamo di un atto di "autoconservazione dell'assassino". Di una tacitazione testimoniale: chi ha ucciso Serena voleva salvaguardarsi. Magari le dà un passaggio, c'è un'attenzione respinta e perde la testa, ad esempio. Chi ha cercato di coprire il delitto ha molto da perdere».