Processo Mollicone, seconda giornata dedicata alle difese. Discussioni tanto accese che a portarle a termine saranno solo due dei tre avvocati della famiglia Mottola, Piergiorgio Di Giuseppe e Mauro Marsella. L'avvocato "storico" della famiglia, Francesco Germani, discuterà lunedì, prima delle repliche. «Siamo nel bel mezzo di un processo indiziario ma per avere una sentenza giusta bisogna avere indizi gravi, precisi e concordanti. L'accusa non può fondarsi sulla sommatoria fine a se stessa di tutti gli indizi messi insieme. Indizi che non sono prove» tuona nell'accesa - a tratti brusca - arringa l'avvocato Di Giuseppe, difensore di Marco.

Ma a calare l'asso sarà poco dopo l'avvocato Mauro Marsella, difensore di Anna Maria (entrambi, come pure l'avvocato Meta, in co-difesa con Germani): quello della telefonata. Una chiamata che "salverebbe" i Mottola. Perché, secondo Marsella, la chiamata tra Guglielmo e l'ex maresciallo contenuta nei tabulati dell'informativa del maresciallo Evangelista - non agli atti - racconterebbe che Franco era in caserma quando veniva trasportato e abbandonato il corpo di Serena nel bosco. «La procura assume che il corpo sia stato trasportato dalla caserma di Arce tra mezzanotte e mezza e l'una nel bosco di Fonte Cupa. Noi abbiamo dimostrato che c'è una chiamata che fa il comandante dalla caserma di Arce a Guglielmo Mollicone - a lui chiede di rientrare in caserma per avere notizie sulla figlia - all'una meno venti. Questa chiamata dimostra che non può essere avvenuto il trasporto del cadavere perché il comandante era all'interno della caserma. Anna Maria non ha la patente, quindi non sarebbe potuta essere neppure lei ad aver trasportato Serena». Chiesta in aula l'acquisizione dei tabulati.

Di Giuseppe all'attacco
«Questo processo viene fuori da due archiviazioni, entrambe successive alle dichiarazioni di Tuzi e a tutte le indagini a carico della famiglia Mottola. Se dopo tutto questo (nel 2009 e nel 2015) senza la porta quegli indizi da soli sono stati considerati non gravi, non precisi e non concordanti, non è una porta che può dare credibilità a indizi che non l'avevano» attacca duramente l'avvocato Piergiorgio Di Giuseppe. Che affronta almeno una dozzina di punti-chiave per spiegare i motivi che porterebbero a ritenere gli imputati estranei ai fatti. Analizza il "frastuono mediatico" che ha coinvolto la famiglia, il «ricorso alla porta come arma del delitto», il comportamento processuale di Marco, che non ha mai detto nulla. Ancota: le parole di Belli, l'ipotesi legata allo spaccio a carico sempre di Marco che «non era un narcotrafficante», l'assenza dei depistaggi, l'attendibilità dei testimoni, la presunta manomissione del cellulare di Serena, passando per gli avvistamenti e i riscontri scientifici.

«Come fa il maresciallo a posizionare tutti come pedine? A far fare a tutti quello che vuole? E se fosse così, lascerebbe la porta lì anche quando non è più da lui controllabile? Come poteva essere certo che se il figlio aveva commesso un delitto non ci fosse neppure una traccia?» tuona Di Giuseppe. Che ribatte a più riprese: «Gli indizi devono essere chiari, precisi e concordanti, non si possono fare due pesi e due misure». Dal processo a Carmine Belli, continua, va tratto un insegnamento: «la giustizia non può esigere ulteriori vittime rispetto a quelle che il delitto ha già generato. La porta da sola non basta. Senza la porta quegli indizi non sono stati giudicati univoci, precisi e concordanti.

Come può la Corte giustificare un ponte giuridico mancante? L'obiettivo è dare rispetto a Serena e a Guglielmo trovando il colpevole, non un colpevole a tutti i costi» afferma. «Il tarlo dell'ipotetica colpevolezza è entrato nelle menti di tutti, pure del parroco. Noi conosciamo tutto del processo: qui dentro non c'è una prova della loro colpevolezza. I frammenti lignei sono quelli della porta? Mai! Dei sei frammenti, le sequenze non ci sono al 100%, sono "scarsamente sovrapponibili". La risposta è già qui: il frammento sulla testa di Serena non viene dalla porta oggetto del sequestro. Cosa dobbiamo dimostrare di più?». Poi prima di chiedere l'assoluzione, cita Falcone: «Il sospetto non è l'anticamera della verità ma della calunnia».

Le parole di Marsella
«Scrivere una sentenza di condanna è difficile. Ci sono delle impronte che non sono degli indagati. C'è un "muro". Non è come nel caso di Yara Gambirasio. Gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti - afferma l'avvocato Marsella facendo eco a Di Giuseppe - Siamo sicuri che le affermazioni di Tuzi, Cattaneo e Pilli siano precise? Se noi mettiamo insieme 3, 4 presunzioni non avremo una certezza ma un errore». Quindi concentra buona parte della sua arringa su Tuzi. «Analizziamo, poi, la collocazione della data della morte di Serena. L'esame esterno e l'autopsia non sono contestuali. Se ci portiamo avanti questo errore è tutto falsato» continua Marsella. «Mancano gli agganci scientifici a qualunque tipo di ricostruzione: il segno che ha Serena, ad esempio. Non ha una ferita compatibile con una superficie piana, la procura scrive per tre volte corpo contundente.

Dopo Lanna inizia a parlare della porta. Non c'è bisogno della Cattaneo per capire che non sia possibile. I frammenti su Serena? Erano sulla busta e non sulla testa. E nella porta neppure un capello. Le impronte: non sono degli imputati. Se si assume questo, non si puo andare oltre. Abbiamo nel nastro sei impronte: negative. Sono dell'assassino ma non degli imputati. I complici dove stanno?» afferma. «Anna Maria quel giorno è in casa, è dimostrato. Una giornata assolutamente normale. Le chiamate raccontano che non poteva essere impegnata nell'omicidio: sono chiamate ordinarie, decine tutti i giorni. Chiedo l'assoluzione piena».