Venerato patrono in una quarantina di località. Conosciuto almeno in una decina di regioni italiane. L'Aquila gli ha dedicato una monumentale basilica. Per San Bernardino da Siena si ritagliò in California addirittura un'apposita diocesi dedicata, sforbiciando quella più importante di San Diego. Ma ad Arpino il celebrato predicatore francescano del XV secolo fu sorprendentemente fatto segno dal popolo di una sassaiola. L'incidente nel 1438 concluse piuttosto fragorosamente l'ennesima invettiva di San Bernardino contro il clero, imbolsito – condannò il frate – dagli agi… del mestiere e, perciò, pigro nell'opera catechetica e nell'esempio di vita umile e caritatevole, imposte dall'Ordine e dalla missione spirituale.

Non la presero bene i preti, radunati per l'occasione intorno al pulpito di San Michele, la chiesa-matrice di Arpino: ancora oggi, per la posizione nel centro storico e l'indubbio riferimento, non solo urbanistico, ma un po' pure devozionale dei concittadini e dei forestieri, che finiscono ovviamente per conquistare il cuore del borgo ciceroniano. Ma i religiosi rinunciarono ad ogni risentimento, astutamente travasando il veleno della loro rabbia invece nel popolino. Devoti coltivatori (i siloniani cafoni) e donnine zelantissime (le pacchiane della tipica famiglia agreste meridionale) – la gente comune, si ammetterebbe oggi con un po' di cipiglio discriminatore – diedero la stura così ai loro consueti sentimenti, mai obliqui, e alla loro reazione, sempre diretta e definita.

Atteggiamento, scatenato dalle censure di San Bernardino contro i loro confessori, riveriti dai fedeli arpinati quali pastori di vissuto e guida nella quotidianità. Perciò, via al lancio di pietre contro il malcapitato oratore, convintosi virilmente a non a dar le spalle, ma ad indietreggiare, anche per aver miglior controllo della traiettoria. E questo, nel tentativo di sottrarsi a bersaglio della così cruenta protesta di fedeli, mai prima affrontata nei pur numerosi episodi di pubblica contestazione all'energica omiletica del santo predicatore. Il quale, con allontanamento, non fuga – si è anticipato – cadenzato e controllato, passando per San Salvatore e poi per San Leonardo prima di bloccarsi coraggiosamente a fine sassaiola, ma solo per lanciare – impettito coram populo; dunque, frontalmente – l'anatema: «Arpino, città di pazzi».

Adesso sì che il santo se la dà a gambe per davvero fino a San Giuseppe. Proprio al parroco don Domenico di quest'ultima, precipitosa tappa della fuga bernardiniana, la notte successiva agli incidenti appare in sogno il Signore, irremovibile nel condannare vita natural durante gli arpinati, con anatema dal 21 al 29 di ogni mese di ciascun anno. Quel che, sempre in sogno, il Signore stesso ripeterà ad ognuno dei fedeli, quasi per informativa pubblica generale. Non resta a don Domenico che lanciare un rito di espiazione, riparazione e di riconciliazione con l'Altissimo.

Si istituisce, perciò, un'inusuale processione cultuale all'indietro – simulando, appunto, l'allontanamento di San Bernardino dalla rivolta del giorno precedente – e si fa allestire pure una cappellina votiva per il francescano vilipeso. Proprio all'ingresso N di Arpino, dove si osserva ancora – magari non egregiamente onorata dall'ingiuria del tempo e dall'inopitata memoria collettiva – sotto le mura ovest della scalea esterna di Santa Maria delle Grazie. «Più una distopia alla Philip Kindred Dick che la disavventura di genuina gente di fede, percepitasi ingiustamente vilipesa», chiosa Saverio Zarrelli, presidente dell'Archeoclub.

Suo il merito di aver lumeggiato sull'episodio, per inscriverlo oggi in una rievocazione folk, quando il prossimo 8 settembre nel borgo-terrazza sul Sacco sarà di fatto recuperata – è la prima volta, appunto – una tradizione divenuta goliardica nel tempo, imbastita particolarmente da giovani (numerosi ad Arpino, blasonata città culturale di studi) intorno al sacrilego linciaggio quattrocentesco. Perché, l'interpretazione psicoanalitica – dicasi pure stevensoniana alla Dr. Jekyll&mister Hide – delle scansioni figurate di quell'evento, nelle espressioni esagerate di protagonista e comparse della manifestazione, «si presta», insiste lo studioso di storia patria arpinate, «ad evento di disperante indicibilità ontologica in trasposti piani di realtà».

Materia di rivisitazione mezzo secolo dopo dell'Ubik dickiano, che, pur con differenti giustificazioni, sembra – tra gnosticismo e misticismo iniziatico quasi alla Blade Runner – ribadire implicazioni psicosociomitopoietiche in quell'episodio del 1438. Per ancorarsi simbolicamente addirittura alle riflessioni della Scuola di Francoforte. Così, valutando, con ineliminata carica psicotica, le critiche recenti agli sviluppi junghiani e lacaniani del subconscio freudiano. Tutto, volto a rilanciare la minaccia collettiva di una subdola manipolazione del potere, operante dietro la dissimulazione della realtà.