«Io, mia moglie, mio figlio e la mia famiglia non sappiamo nulla della morte di Serena. Nessuno di noi ha partecipato al confezionamento, all'imbavagliamento, al legamento, al trasporto del corpo di Serena a Fonte Cupa. E nessuno di noi ha partecipato all'occultamento del suo corpo.
Non ne sappiamo nulla». L'ex maresciallo Franco Mottola, camicia di un blu notte rigoroso, giacca di un tono più chiaro, chiede di prendere la parola: così come il figlio Marco, vuole rendere spontanee dichiarazioni.
Poco più di dieci minuti per ribadire che nessuno della sua famiglia sarebbe coinvolto nell'omicidio di Serena né nell'occultamento del suo corpo. L'ex maresciallo, però, in quella manciata di minuti parla anche dell'ordine di servizio, della porta, dei depistaggi e della morte di Santino Tuzi. Un foglio tra le mani per tenere insieme passaggi fondamentali di una vita intera, vent'anni di inchieste e di uno dei casi giudiziari più difficili da affrontare.

«Non ho depistato nulla aggiunge - E non avrei potuto farlo, ho fatto il mio dovere, agendo su delega del capitano Trombetti e dei pm». «Siamo innocenti rispetto al barbaro omicidio della povera ragazza che in questa sede, ingiustamente, ci viene attribuito. Serena ha bisogno di giustizia ma anche noi, che reclamiamo forte la nostra estraneità ai fatti».

Tuzi e le dichiarazioni
Secondo Mottola è Tuzi ad aver fatto confusione.
«Vorrei anzitutto precisare che la mattina del 1° giugno 2001 tornai ad Arce, da Frosinone, dove avevo partecipato alla festa dell'Arma, verso le 10.10 del mattino e ridiscesi prima delle 11, poiché Quatrale e Tuzi avrebbero dovuto completare il servizio esterno che avevo già impartito. Né in quella circostanza né in altre Serena è entrata in caserma. Tuzi purtroppo ha fatto moltissima confusione e dopo sette anni, improvvisamente, dopo pressioni, battute e minacce che sono agli atti o per il solo timore di essere incriminato per l'omicidio, riferisce vagamente di una ragazza entrata in caserma senza però mai dire che ciò fosse accaduto il primo giugno e che fosse Serena: le registrazioni delle sua sommarie informazioni, che sono incontrovertibili, lo dimostrano senza alcuna ombra di dubbio. D'altronde, se ciò fosse stato vero, lo avrebbe detto dalla sera, quando vennero i familiari di Serena a denunciarne la scomparsa sin dalla mattina e ne avrebbe parlato in famiglia, circostanza smentita dalla stessa Maria Tuzi». Passaggio che invece Maria nega con forza. «Ed è falso, come ipotizza chi mi accusa, che io possa aver minacciato, ricattato o promesso chissà cosa a Tuzi e a Quatrale affinché negassero che Serena fosse entrata in caserma: queste sono ipotesi tutte campate in aria».

Poi passa agli ordini di servizio: «Nessun ordine di servizio falso: in realtà chi mise gli orari fu proprio Tuzi e fu molto impreciso. Ma vi pare che se avessimo dovuto darci un falso alibi non lo avremmo organizzato in maniera minuziosa e senza imprecisioni, così da fornire una versione unica e convincente? Addirittura sono stato accusato di essere responsabile della morte di Tuzi: questa circostanza è falsa! Io, mia moglie, mio figlio e la mia famiglia non sappiamo nulla della morte di Serena».

I depistaggi
«Non ho fatto sparire nessun documento dalla casa di Guglielmo Mollicone. Non è vero neppure che sabato pomeriggio 2 giugno Carmine Belli venne in caserma e che io non verbalizzai le sue dichiarazioni poiché quel pomeriggio ero in elicottero con il capitano Trombetti per ispezionare dall'alto la zona da Arce a Sora» precisando pure che venivano fatte riunioni operative continue e che aveva segnato i tutti i dettagli dell'attività di indagine su un'agenda «che compilavo assieme a Quatrale: il capitano Trombetti ne era al corrente».
Sui tentativi contestati di "proteggere" il figlio afferma: «Non ho esperito alcun tentativo di fare escludere dalla lista dei sospetti mio figlio Marco e la sua vettura Y10 poiché la sua macchina era parcheggiata nel piazzale della caserma e ben visibile agli occhi di tutti»

Il telefono e le impronte
«Il telefonino di Serena non l'ho mai visto sino a che non mi è stato portato in caserma dal cognato di Gugliemo Mollicone. Né ho cancellato le impronte dal telefonino come sostiene la procura, tanto che sullo stesso sono state trovate quelle di Guglielmo.
E neppure abbiamo inserito nell'agenda del telefonino di Serena il "666" accanto alla dicitura diavolo: è un'illazione accusatoria senza testa e né coda, frutto dell'innamoramento del sospetto». Come illazioni definisce le accuse mosse sulle scarse attività di ricerca dopo la scomparsa o sul fatto di aver fatto credere in tendenze suicidiarie da parte della ragazza. «Non è vero, inoltre, che io abbia inserito o fatto inserire nel cassetto di Serena hashish: un tentativo da parte di chi mi accusa di fare quadrare il cerchio». «Allo stesso modo è falso che io abbia tentato di fare cadere i sospetti su Gugliemo tramite il clamoroso prelevamento durante il funerale: mi fu ordinato dal capitano Trombetti su ordine di uno dei tre magistrati inquirenti come, del resto, ha riferito in quest'aula il capitano. Hanno, inoltre, insinuato falsamente che io abbia fatto sparire dall'obitorio di Roma i reperti e i vetrini di Serena: la responsabilità se l'è assunta il professor Ernesto D'Aloja. La questione delle foto pedopornografiche? Quelle rinvenute sul telefonino sono 8 foto su 29.914: una bolla di sapone. I miei consulenti hanno infatti prodotto una relazione per dimostrare che quelle fotografie sono file che non ho scaricato intenzionalmente» 

La porta
«In relazione alla porta voglio anzitutto dire questo: se la porta fosse l'arma del delitto, vi pare che dal 2001 al 2002 non avremmo potuto aggiustarla oppure coprire il danneggiamento? La nostra ingenuità prova la nostra assoluta innocenza» asserisce sull'aspetto più importante finora. «La ruppi io con un pugno dopo un litigio con Marco che aveva deciso di non frequentare più la scuola». Marco esce di casa, il padre si sfoga contro la porta del bagno posto nel corridoio, provocando il danno: «Non ricordo bene la dinamica del fatto, ricordo che colpii la porta con la parte inferiore del pugno, con la mano destra. Per non litigare con mia moglie e per evitare discussioni, decisi di portare via la porta continua collocandola nell'appartamento disabitato a trattativa privata. Era meno visibile».
Proprio sulla porta la pubblica accusa chiede che vengano portati in aula i calchi dei pugni di Marco e Franco, ancora a Milano per un riscontro in diretta.