Sin dall'età di quattro o cinque anni aveva in cuore l'idea di diventare sacerdote. È cresciuto negli anni Sessanta quando tutta la comunità "educava" alla fede, poi l'incontro con i missionari a Torino e con un monaco durante gli esercizi spirituali da novizio: ecco come è "nato" il 191esimo successore di San Benedetto. Dom Donato Ogliari si è raccontato in tv, alla trasmissione Soul su Tv2000 intervistato dalla splendida e incalzante Monica Mondo. A lei e ai telespettatori ha parlato anche di Montecassino, della sua capacità di perenne rinascita, della speranza vera nella pace.
Siamo a Torino e il giovanissimo Ogliari è diventato sacerdote nelle missioni della Consolata. «La conoscenza coi missionari della Consolata - racconta l'abate - è stata fortuita nel senso che uno di loro è arrivato nella mia parrocchia - che è anche il mio paese di origine, Asso, in provincia di Como - quando ero in quarta o quinta elementare. E come accadeva spesso, i missionari chiedevano "ti piacerebbe farti sacerdote, ti piacerebbe andare in missione?". La cosa mi attraeva e subito risposi di sì. E da lì è iniziato tutto il mio itinerario di formazione fino, appunto, al sacerdozio».
Poi una seconda scelta - schematizza Monica Mondo - che sembra in contrasto con la prima. Da una parte nel mondo e dall'altra la vita monacale. «Prima di approdare alla vita monastica c'è stato un percorso anche con i superiori che mi seguivano. Diciamo che tutto è nato da un contatto concreto. Tutto avvenne durante il noviziato, ero ventenne quando per la prima volta incontrai un monaco che era stato invitato per accompagnarci agli esercizi spirituali. Avvertii qualcosa nel profondo di me stesso. Sulle prime - continua dom Ogliari - può sembrare quasi in contrapposizione con una vita missionaria completamente dedita agli altri, però io dico sempre che gli estremi si toccano per formare una sintesi che la Provvidenza ha voluto nel mio caso.
Non sono mai stato in missione ma tutta la formazione che ho vissuto mi ha aperto a questa nuova vocazione, portando al suo interno anche tutto quel bagaglio di universalità, di apertura mentale e di capacità di incontro con chiunque si presentasse nel mio cammino. Quindi non è stato un rifugio, una fuga dal mondo ma portare il mondo in una realtà, il monastero, dove ci sono i confratelli che sono la tua famiglia, dove si lavora, si prega e si studia secondo il trinomio classico e poi c'è l'apertura anche del monastero al mondo. Montecassino ha queste due braccia verso la città, l'una educativa, l'istituto paritario San Benedetto, e l'altra più caritatevole, la Casa della Carità».
E l'incontro con la fede? «Non ci sono stati salti alla San Paolo, la mia è stata una fede che è cresciuta piano piano, lì dove mi trovavo. Allora, negli anni Sessanta, le tre agenzie educative (casa, scuola e chiesa) contribuivano verso uno scopo comune, quindi per me è stato semplice immettermi in questo filone e accogliere la chiamata del Signore. Facevo parte della diocesi di Milano, per noi l'oratorio era luogo di formazione e il sacerdote che ci seguiva era un modello per me. Fin da piccolino volevo fare il sacerdote: i miei genitori, con passare del tempo, me lo hanno sempre ricordato».
E quando l'attenzione si sposta su Montecassino l'abate spiega: «Non è solo simbolico il ruolo che Montecassino continua a svolgere anche oggi nel mondo ma è grazie a Benedetto e ai monaci che hanno seguito la sua regola (soprattutto nel periodo medievale), che l'umanesimo cristiano è stato radicato in quella che è divenuta la civiltà europea. Paolo VI ha sintetizzato molto bene quel trinomio attraverso l'immagine della croce, dell'aratro e del libro. Per dire come i monaci abbiano inciso in questi tre ambiti che costituiscono la vita umana». Montecassino distrutta quattro volte e segnata da scandali dolorosi, chiede la giornalista, anche di poco precedenti alla sua nomina.
Che significato ha vederla sempre ricostruita? «Uno dei motti utilizzati spesso è Succisa Virescit: la pianta tagliata rigermoglia. La vita vince sulla morte e questo è avvenuto. Ogni volta è risorta più bella di prima, non tanto per l'edificio in sé ma sempre arricchita da una profonda spiritualità che permea le sue pietre». La fiaccola e il simbolo della pace. La fiaccola accesa allo scoppio della guerra. Perché «vuole portare il significato vero della pace che non è un intervallo tra una guerra e l'altra ma il lavorare affinché nei cuori, nelle vite, nelle relazioni che stabiliamo con gli altri si stabilisca questo desiderio e questo impegno pacifico e pacificante. Questo impegno nelle piccole cose, nei piccoli gesti, nel modo in cui pensiamo e riflettiamo, in quello che diciamo».
E perché Dio permette il male? «È una domanda che ci trova sempre impreparati - ha risposto l'abate di Montecassino a Monica Mondo - se non che Dio lo permette perché rispetta la nostra libertà e, purtroppo, quando la libertà è usata secondo criteri tornacontistici o di natura geopolitica ecco che questo si ritorce contro di noi. La pace vera si può trovare pur di fronte al mistero del dolore, della sofferenza, della malvagità di cui l'uomo è capace proprio contemplando la figura di un Dio che muore facendosi carico del nostro dolore, delle sofferenze di tutti i tempi e delle malvagità di tutti i tempi.
Sono secoli in cui gli uomini si combattono ma credo che proprio la morte e risurrezione di Gesù serva a mantenere questa speranza e questo impegno sempre vivo. Il bene alla fine prevale sul male anche quando sembra non sembra trovare la sua strada in mezzo ai tanti errori della nostra umanità»
E ancora: «Montecassino, nel suo piccolo, richiama queste radici europee però oggi si ha l'impressione che ci sia una sorta di rinuncia passiva delle nostre radici. Una sorta di naufragio di se stessi. Dio è scomparso dall'orizzonte di vita di molti, non è più qualcosa o qualcuno che da senso al proprio cammino ma si ritiene superfluo. Viviamo in una cultura dove l'uomo si pone al di sopra di tutto e di tutti senza avere un riferimento al di fuori di se stesso. Crediamo di non avere più bisogno di cercare e di avere tutti i mezzi per ottenere ogni risposta mentre la ricerca di Dio ci obbliga a uscire da noi stessi.
Forse manchiamo di quel pizzico di umiltà che permetta di riconoscere quello che noi siamo in quanto creature e il bisogno di cercare quel senso che si manca. La nostra piccola testimonianza quotidiana dice che è possibile vivere insieme al di là delle diversità, questa capacità di venirsi incontro e di relativizzare ciò che non è essenziale. Oggi, in un mondo così frammentato come il nostro resta una testimonianza forte di fronte, all'egocentrismo esasperato. La felicità sta nel dono di noi stessi, dandoci e facendo il bene che ci arriva la felicità».