Daniele ha 38 anni. È un padre, un marito, un lavoratore. Un uomo in salute che vive la sua vita serena al fianco della famiglia. Tutto scorre, fino a quando anche quella famiglia serena non deve fare i conti con un nemico comune: il Covid-19. Il Coronavirus bussa alle porte della sua casa e, in poco tempo, stravolge tutto. Toglie il respiro, e non in senso metaforico. A Daniele manca l'aria. I suoi livelli di saturazione non sono ottimali. Lo ricoverano in un reparto Covid. Insieme a lui c'è il suocero.

Lottano per tornare a casa, per riabbracciare la loro famiglia ma uno di loro non potrà più farlo. Daniele vede morire il suocero accanto a lui. Nulla sarà più come prima. Ha paura ma l'immagine del suo figlioletto, seppur attraverso lo schermo di uno smartphone, gli dà la forza per reagire. «Oggi l'ho visto mentre in videochiamata parlava con suo figlio di pochi mesi. L'ho visto mentre, nonostante la paura, rassicurava sua moglie che non smetteva di piangere e anche se lontano le era vicino». È il racconto di un'infermiera.
Inizia con questa immagine il nostro viaggio nel reparto Covid dell'Rsa San Camillo di Sora. Un viaggio fatto attraverso gli occhi e le storie degli operatori che qui, ogni giorno, lottano al fianco dei pazienti. Senza risparmiarsi mai, nonostante la paura di essere contagiati e di poter, a loro volta, contagiare i loro cari una volta tornati a casa.

Qui, tra quelle corsie che dal primo novembre scorso, per far fronte all'emergenza sanitaria, sono state trasformate in letti per accogliere malati Covid da tutta la regione, si lotta ogni giorno. Nessun elmetto e niente artiglieria. I soldati sono medici, infermieri, oss e addetti alla pulizia e alla sanificazione giornaliera dell'ambiente. E la guerra al nemico comune si combatte proteggendosi con guanti, cuffie, mascherine, visiere e tute. Niente messaggi in codice, qui si comunica solo con lo sguardo. Con i volti nascosti dalle mascherine, gli occhi restano l'unico modo per esprimersi. Per tranquillizzare i pazienti che non si possono più abbracciare, per dare conforto ad un collega esausto ora che neppure una pacca sulla spalla è più concessa. Per sorridere quando un paziente torna a respirare. Per nascondere le lacrime, anche quando non si riescono a trattenere.

Viaggio in corsia
Il reparto Covid dell'Rsa San Camillo ormai da mesi è un'eccellenza sul territorio. Un importante supporto per evitare il collasso delle strutture sanitarie pubbliche. Dieci i posti letto per i pazienti Covid con personale qualificato dedicato ad ognuno di loro. Fino ad oggi qui sono state ricoverate quasi ottanta persone e, al momento, non ci sono posti liberi. O, forse, non ce ne sono mai stati. Per ogni paziente che viene dimesso ce n'è un altro che ha bisogno del suo posto. Fino a gennaio erano quasi tutti anziani, tra i 70 e i 90 anni. Da febbraio l'età media è drammaticamente scesa: «Nell'ultimo mese e mezzo sono arrivati pazienti tra i 38 e i 60 anni – spiegano gli operatori della struttura – restano qui dai 14 ai 30 giorni, secondo la gravità del caso. A molti le cure farmacologiche non bastano, hanno bisogno di ossigeno, anche fino a 15 litri al minuto.

Quando si superano questi parametri e la situazione rischia di precipitare, vanno trasferiti in terapia intensiva e quindi in ospedale. La vittoria più grande è quando un paziente si negativizza. Alcuni restano anche dopo perché hanno bisogno di riabilitazione, altri possono finalmente tornare a casa».

Quando giungono in reparto i pazienti spesso arrivano da un pronto soccorso o dopo trasferimenti da ospedali Covid. Sono soli, non hanno nulla o quasi nulla dei loro effetti personali. Sono gli operatori che contattano le famiglie per richiedere il necessario. Perché il nemico comune non toglie solo il respiro, priva i malati dei loro affetti, degli abbracci, delle cure dei loro familiari. I medici, gli infermieri e gli altri pazienti in quei lunghi e interminabili giorni lontani da casa diventano gli unici punti di riferimento.

«Con il virus i nostri pazienti non sono più soltanto malati bisognosi di assistenza e cure – racconta Caterina, che dall'inizio dell'emergenza è in prima linea con i suoi colleghi – Ma sono persone che hanno negli occhi la paura di non potercela fare e cercano in noi conforto e speranza. In questo scenario, la cosa più frustrante è che non abbiamo una cura miracolosa per farli guarire, solo la costanza di tenere a bada i sintomi e la speranza che passino presto. Lavorare con questi pensieri ha trasformato la fatica del lavoro fisico in un peso psicologico con cui non riusciamo a smettere di confrontarci – continua Caterina – Vedere persone malate e spaventate non poter essere rassicurate dai propri cari è straziante, ed è altrettanto terribile vedere chi fuori dalle mura della nostra struttura aspetta con ansia notizie. Familiari che fremono dalla voglia di stringere, proteggere e rassicurare le persone che amano. Sono i loro occhi e le loro parole che ci spingono ad entrare in reparto e fare di più oltre alla semplice assistenza. Il nostro obiettivo è quello di portare loro l'affetto ed il sorriso che la famiglia vorrebbero regalargli».

Un impegno costante che non è più soltanto lavoro. Qui, come in tutti i reparti Covid d'Italia e del mondo, si combatte per vincere un nemico comune. Per tornare ad abbracciare i propri cari senza paure. Per tornare a sorridere senza nascondere le emozioni dietro una mascherina. È la battaglia di tutti. Ma strutture come questa rappresentano la prima linea, quella che affronta direttamente il nemico. Faccia a faccia. Un lavoro difficile, soprattutto dal punto di vista umano e psicologico, gravato dalla paura, dal peso dei dispositivi di protezione, dal caldo asfissiante delle tute perché, come spiegano gli operatori, «spesso si decide di non bere per ore per non avere la necessità di andare in bagno perché spogliarsi, disinfettarsi, buttare tutti i vestiti e ricominciare porta via troppo tempo e troppa fatica. E qui il tempo non è abbastanza e la fatica è già moltissima. È così che viviamo nei nostri DPI: rinchiusi come in una camicia di forza senza poter donare un sorriso, una carezza a chi ne avrebbe davvero bisogno. Ma, a volte, è inutile negarlo, la voglia di abbracciare qualche paziente è prevalsa sulla paura».

Faccia a faccia con il virus
Nella trincea del reparto dell'Rsa San Camillo, gli operatori hanno vinto tante battaglie. Tante quanti i pazienti guariti e dimessi. Ma sono stati molti anche quelli che hanno dovuto far trasferire in ospedale. E qualcuno non ce l'ha fatta. Ogni paziente passato da qui che è poi deceduto in un ospedale più o meno lontano è una sconfitta per chi ha lottato senza risparmiarsi per salvarlo. Lo sanno bene gli operatori della struttura che non dimenticheranno mai quei volti, quegli occhi e quelle storie. Una in particolare ha colpito Andrea, che come Caterina e i loro colleghi da novembre lavora in reparto senza sosta: «Era notte. Giravo per un controllo e ricordo che da qualche giorno c'era un paziente.

Un uomo sulla cinquantina, forte, prima del Covid in salute. Il virus gli aveva già tolto tanto, familiari e amici. Aveva paura, abbiamo imparato a leggerla nei loro occhi senza che parlino. Mi ha chiesto perché la febbre non stesse passando. Ho provato a tranquillizzarlo, certo che ce l'avrebbe fatta. Dopo soli due giorni ha avuto una crisi respiratoria, abbiamo dovuto richiedere il trasferimento immediato in ospedale. Nel giro di dieci giorni il virus se l'è portato via senza che potesse rivedere sua figlia. Non dimenticherò mai quell'ultima notte».

Un racconto drammatico. Una storia purtroppo comune ad altre migliaia di storie in quest'ultimo anno segnato dalla pandemia. Più di 365 giorni che hanno stravolto le vite di ognuno di noi. Andrea li ricorda così: «Ero davanti alla tv, era una sera come tante quando sentii per la prima volta parlare di un virus sconosciuto e lontano. Era come se non dovesse interessarci, mi sentivo al sicuro, ci sentivamo tutti al sicuro. Ma a gennaio 2020 nulla era più come prima. A novembre mi chiesero se volessi far parte di una realtà del tutto nuova, assistere pazienti Covid a bassa intensità. Con un po' di smarrimento e ansia ho deciso di accettare. Nel corso dei giorni ho dovuto prendere confidenza con precauzioni nuove, vestirsi prima di entrare in reparto è diventata una manovra attenta per paura di fare errori. In questi mesi ho visto gente troppo giovane per essere malata, ho visto le lacrime di figli a cui mancava e purtroppo mancherà la carezza di un papà che il Covid ha portato via troppo presto. Ma, nonostante tutto, abbiamo anche avuto modo di essere orgogliosi del nostro operato».

L'amore per il proprio lavoro, l'orgoglio e l'emozione che si prova quando si vede tornare un paziente a casa danno la forza a questi eroi del nostro tempo di continuare a combattere. Non si fermeranno fino a quando il virus non sarà sconfitto e, da quel reparto dove contro il Covid-19 si lotta ogni giorno, lanciano un messaggio: «Al posto di queste persone potrebbe esserci ognuno di noi. Potrebbero esserci i nostri figli, i nostri, mariti, le nostre mogli, le nostre mamme o i nostri papà. Quindi non lamentiamoci se anche questa Pasqua la passeremo senza grandi festeggiamenti, perché c'è qualcuno che la passerà lontano dagli affetti più cari con la paura di non poterli più rivedere. Ne usciremo. È vero, ce lo ripetiamo ormai da molto tempo. Ma evidentemente lo sforzo che ci è richiesto è ancora più grande».