«Con l'introduzione dello smart working il mondo del lavoro è cambiato radicalmente. Con quello che è accaduto nell'ultimo anno, sulla spinta dell'emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid, abbiamo assistito ad una vera rivoluzione, specie nel pubblico impiego e nell'ambito della scuola in particolare. Tuttavia, è stato possibile verificare una progressiva espansione di questa nuova tipologia di lavoro anche nel settore privato, in prima fila le grandi aziende». L'analisi è firmata da Anselmo Briganti, segretario della Cigl di Frosinone e Latina.

A questa costante diffusione e al crescente potenziamento del lavoro da casa è corrisposta una sua adeguata gestione?
«Purtroppo ancora no. Per ottenere questo risultato, infatti, è indispensabile la collaborazione e la condivisione dei percorsi che si fanno da parte dei datori di lavoro, siano essi lo Stato o i privati. Ed è proprio in questo ambito che ci stiamo battendo ogni giorno, con una nuova accelerazione della nostra azione in virtù della recrudescenza della pandemia e del consequenziale ricorso massiccio allo smart working. In alcuni casi, ad esempio, vediamo che si fa un "uso" di questo genere di lavoro in percentuali prossime al 100% e questo non va affatto bene».

Quali le ragioni di questo giudizio negativo?
«Principalmente, ricorrendo allo smart working al 100%, o poco meno, si provocano ripercussioni negative per i lavoratori ai quali vengono a mancare i rapporti interpersonali, il contatto con il posto di lavoro, gli aspetti socializzanti ad esso collegati. Senza pensare al lato economico…».

Ci spieghi meglio
«Semplice: nella maggior parte delle situazioni i lavoratori sono stati costretti ad investire proprie risorse economiche per l'acquisto di nuovi pc, per creare reti wi-fi, per attrezzare spazi casalinghi non sempre esistenti. E in questo caso le ricadute investono anche il nucleo familiare, costretto, spesso in appartamenti di 70-80 metri quadrati, a dover rinunciare a spazi vitali. Tutto è avvenuto, e sta avvenendo, fatte salve le eccezioni pur esistenti, a spese dei dipendenti, senza che le aziende si siano preoccupate di supportarli in modalità adeguate. Non ultima, inoltre, la perdita di condizioni favorevoli dal punto di vista contrattuale negli anni acquisite e collegate alla presenza sul posto di lavoro».

Quali soluzione proponete per ovviare a queste situazioni?
«Innanzitutto, è necessario un confronto costruttivo con i datori di lavoro, pubblici e privati, attraverso il quale arrivare ad un salutare equilibrio nel ricorso allo smart working. In altre parole, riteniamo indispensabile stabilire delle percentuali nel ricorso al lavoro a distanza, accompagnate da una rotazione dei lavoratori interessati. Inoltre, occorre che ai dipendenti vengano riconosciuti indennizzi appropriati per le spese sostenute al fine di mettersi in condizione di poter operare dalla propria abitazione. In questo modo i dipendenti da un lato non subiscono perdite economiche e, dall'altro, riescono a mantenere i contatti interpersonali con i colleghi e con le aziende stesse. Occorre, ricapitolando, che i datori di lavoro mettano mano in fretta alla riorganizzazione interna per favorire migliore condizioni anche in presenza dello smart working».

Ma voi, come sigla sindacale, siete favorevoli o no a questa forma di lavoro?
«Ovviamente sì, ma riteniamo indispensabile riequilibrare gli eccessi che l'emergenza sanitaria ha provocato a tutto danno dei dipendenti».

Avete già ottenuto qualche risultato in questa direzione?
«Stiamo ragionando con molte aziende ed enti pubblici attraverso accordi di secondo livello, i contratti aziendali integrativi, ma non dappertutto: lo stiamo facendo dove le aziende sono aperte a questi ragionamenti, comprendendone l'efficacia anche in termini di produttività, e quindi aderiscono ai contratti integrativi applicandoli in modo proficuo. Finora, comunque, si è operato a livello locale e parziale, mentre aspettiamo i prossimi rinnovi dei contratti nazionali per metterci dentro le rivendicazioni illustrate».

Ha parlato di produttività: con lo smart working aumenta o meno?
«Sicuramente cresce e anche in maniera abbastanza sensibile. Stando ai dati in nostro possesso, l'aumento è quantificabile in una forbice che oscilla tra il 17 e il 20 per cento».

Allo smart working si fa più ricorso nel pubblico o nel privato?
«Sicuramente nel comparto pubblico, e nella scuola in specie. Ma da qualche tempo anche nel privato, che inizialmente era alquanto recalcitrante, si cominciano ad organizzare sistemi di lavoro più produttivi in funzione proprio del lavoro da casa».

Ieri, 8 marzo, è stata celebrata la Festa della donna: in riferimento allo smart working le donne subiscono penalizzazioni?
«Direttamente no, ma poi, essendo oberate anche da tante altre incombenze domestiche, inevitabilmente ne risentono più dei colleghi uomini con conseguenze pesanti e spesso alienanti. Poi ci sono gli stipendi più bassi, le progressioni di carriera più lente, ma questo è un altro discorso».

Smart working e conseguenze sulla salute…
«L'incidenza c'è ed è evidente nei numeri che abbiamo: nell'ultimo anno, ad esempio, sono aumentati gli incidenti all'interno delle abitazioni familiari, così come sono cresciute le violenze fra coniugi, anche in questo caso a discapito delle donne, così come le crisi coniugali spesso sfociate in separazioni e divorzi. Poi ci sono i danni psicologici perché, come detto prima, lavorare sempre e solo da casa crea nuove forme di stress con la fine dei rapporti interpersonali, il venir meno degli spostamenti verso i luoghi di lavoro che comunque creano momenti di distrazione e alleggeriscono il lavoro stesso».
Ritenete che ormai lo smart working sarà la forma prevalente di lavoro?
«Beh, visti i dati in termini di maggiore produttività e di minori costi per aziende ed enti sicuramente non si tornerà indietro. Però, lo ribadisco, sarà necessario trovare il giusto equilibrio».