Si sentono un po' come quei soldati reclutati e spediti al fronte per combattere contro il nemico. Solo che il nemico non ha un elmetto o un fucile, ma è invisibile, infido, si insinua furtivamente come un serpente nella vita delle persone e le stravolge, a volte spegnendole.

Questi "soldati" nell'anno del Covid-19 sono medici, infermieri, operatori sanitari che lottano ogni giorno per salvare vite. «Ore 6. La sveglia suona e una nuova giornata inizia. Accendo la televisione mentre preparo un caffè al volo; solite notizie, ancora ci siamo dentro, quindi non era tutto un incubo. Mi ripeto che tutto andrà bene anche oggi e trovo il coraggio per andare a preparare la giornata. Ci vorrà circa un'ora per arrivare sul posto di lavoro e sono quasi le7. Ok ci sono. Prendo tutto l'occorrente e corro via, direzione ospedale».

Inizia così la giornata di un medico impegnato nella trincea degli ospedali. La racconta in questo modo Damiano Pizzuti, 30 anni, giovane medico ceccanese, che, come una giovane recluta, regge il fronte.

Come è la vita di un medico al tempo del Covid?
«La vita di un medico e di un giovane medico al tempo del Covid è cambiata molto, specialmente nel modo di scandire le ore e di organizzare la vita, le attività quotidiane. La professione in sé non è mutata. È cambiato l'approccio col paziente, con lo studio. I protocolli sono cambiati ed è cambiato ogni gesto, anche il più banale. Il mutamento più radicale c'è stato nella gestione della quotidianità. Il pranzo, per dire, è la cosa che è stata più stravolta in questo periodo. Era un momento di distensione nel quale ci si "sbottonava" un pochino parlando del più e del meno, dove non esistevano ruoli, una sorta di zona franca dove poter fare un po' gruppo. Adesso, per paura di contagiarci, mangiamo separati, in punti diversi e ognuno è chiuso in sé stesso, in una sorta di atto riflessivo forzato che a mio avviso è tutt'altro che terapeutico.

Tutti i giorni si comincia a lavorare ricevendo i primi pazienti, noi ci occupiamo di tutto, siamo la valvola di sfogo di un Pronto Soccorso che non riesce a contenere l'enorme afflusso di gente con febbre che si presenta giornalmente. Impossibile non lavorare nell'estrema convinzione che il contagio possa arrivare da chiunque e in qualunque momento. Poi capita che ti arrivi il paziente, molto sicuro di sé, che non indossa la mascherina. L'infermiera glielo fa notare e il signore ha l'ardire di iniziare a sproloquiare riguardo complotti, dittature sanitarie e chi più ne ha più ne metta.

È uno dei soliti che si presenta solo per urlarci in faccia, ormai quasi una costante. Ricordo che a marzo ci chiamavano "eroi", ora abbiamo tutte le colpe del mondo. Come può esistere tanta cattiveria verso chi non chiede nessun appellativo, ma solo di poter lavorare?»

Quando il Covid ha fatto irruzione nella sua vita personale e professionale?
«Prima di marzo vedevamo il Covid come un fenomeno lontano. Certamente ci toccavano le esperienze dei nostri colleghi del nord Italia, le seguivamo con attenzione, ma sempre con quel distacco che ti porta a non essere focalizzato al 100% sul problema. Poi, all'improvviso, tutto è cambiato. È arrivato il lockdown, preceduto da note della Asl e dell'Ordine dei medici con le prime indicazioni. Sono stati chiusi presidi e ambulatori, le visite bloccate, i protocolli stravolti. Iniziavano ad arrivare i termometri, i termoscanner, i dispositivi di protezione individuale e lì, a quel punto, ho capito che c'eravamo. Tanti di noi iniziavano a prendere confidenza con cose che prima avevano letto solo sui libri dell'università e che nella pratica normale non avevano ancora incrociato.

Il virus era tra noi e la "battaglia" era iniziata.
Eravamo al fronte. Ci siamo trovati catapultati in un mondo diverso e abbiamo capito anche quali erano i limiti di un'organizzazione sanitaria che nell'emergenza sono emersi inevitabilmente. Tra le immagini che mi scorrono davanti agli occhi c'è quella di un paziente che abbiamo ospitato ad Anagni. Il primo paziente post-Covid che non era più infettivo e lì ho potuto vedere i segni che questa malattia lascia sulle persone sotto ogni aspetto».

Dal punto di vista umano dalla parte del medico l'approccio quale è stato? E il paziente come affronta la malattia? C'è paura, solitudine, smarrimento?
«Sta diventando molto complicato stabilire un rapporto empatico con il paziente per via del fatto che le norme comportamentali sul distanziamento e l'utilizzo di certi dispositivi di protezione individuali creano una sorta di barriera con il paziente, fisica e psicologica. Già solo la mascherina, che nasconde le espressioni del volto, è una menomazione tanto per il medico quanto per il paziente. Il contatto umano è una parte fondamentale della professione medica e in questa fase tutto è diventato più difficile. Inoltre, alcuni pazienti, soprattutto quelli anziani, nutrono una certa diffidenza verso i medici perché vedono in noi potenziali veicoli della malattia. Diverse persone, che io normalmente visito a casa, oggi preferiscono non ricevere la visita del medico, perché impauriti dalla eventualità di essere contagiati. Eticamente si configura il conflitto tra obbligo e desiderio di assistenza verso il malato e il pericolo di contagio verso l'altro».

L'aspetto umano quanto pesa?
«Tantissimo. In questi mesi abbiamo toccato con mano tante storie di solitudine, di angoscia di paura. Ne cito una per tutte. Ricordo di una donna ricoverata negativa al Covid, ma che aveva il marito, di pari età, positivo, invece, degente presso una Rsa. Per venti giorni non è riuscita ad avere contatti con il congiunto e non sapeva se fosse vivo o morto. Quello dell'aspetto umano, in questo periodo, è il risvolto più critico».

Non solo momenti difficili, ma anche qualche sorriso.
«Certamente. In particolare mi torna alla mente la vicenda di un uomo di 95 anni ricoverato a Malattie infettive per Covid-19 con polmonite bilaterale. Sfidando ogni statistica, ha fatto il percorso di recupero, ha completato tutta la terapia, ha collaborato splendidamente con il personale sanitario ed è riuscito ad uscire dall'ospedale sulle proprie gambe, visibilmente emozionato, così come emozionati e commossi eravamo noi. Sono quelle storie che ti danno forza e che ti ripagano di tanta fatica e di tanto lavoro».

Il medico a volte vive anche una sua solitudine.
«Medici, infermieri e operatori sanitari di qualunque tipologia da marzo 2020 hanno visto stravolti il proprio lavoro e le proprie relazioni sociali. Veniamo visti come degli "appestati", tanti di noi hanno perso amicizie, amori e rapporti fino a febbraio normali. Ad oggi sono più di 30.000 gli operatori sanitari contagiati, molti si sono ammalati seriamente e purtroppo in alcuni casi abbiamo avuto dei decessi. Ogni volta che un collega si ammala ci ammaliamo un po' tutti noi, perché siamo uniti nel percorso sanitario a prescindere dal Covid-19, in virtù di quel sottile filo invisibile che lega le nostre coscienze a la nostra professione».

Questa esperienza cosa le lascerà?
«Mi ha cambiato molto nel mio modo di rapportarmi con le persone e mi ha insegnato che spesso tendiamo a fare i medici in maniera "fredda": studiamo, curiamo, facciamo guarire le persone, ma non ci soffermiamo, forse, come si dovrebbe, sulla sfera umana, per tanti motivi: perché lavoriamo a velocità siderale, perché i ponto soccorso sono intasati, perché gli ospedali sono pieni e così via. Mi son reso conto, però, che dare un'assistenza non solo medica diventa a volte decisivo.
Senza un adeguato sostegno emotivo le cure possono anche non funzionare».