Lasciamo i giardinetti di largo Oberdan, qualcuno che conosce bene le dinamiche della "movida" e che conosceva bene anche il giovane Willy ci aspetta. Raggiungiamo la PDD Security, azienda che offre servizi di sicurezza. Ci accoglie il responsabile, Pasquale Di Donna. Pasquale è conosciuto da tutti nella zona, dai ragazzi che amano divertirsi in maniera sana a gente che frequenta la movida per scopi meno nobili. I ragazzi che lavorano per la sua agenzia fanno sicurezza in tutti i locali a Colleferro e non solo. Lavorano anche nei locali finiti nel mirino dopo l'omicidio.

Al "Duedipicche" ci sono sempre i suoi. Willy lo conoscevano bene, anche lui lo aveva visto tante volte. Come tante volte avevano visto i fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia. Sa di cosa vogliamo parlare e ci anticipa: «Si poteva e si doveva evitare. Una tragedia simile era annunciata da tempo. Quella di Colleferro è una movida che raccoglie migliaia di ragazzi ogni fine settimana e c'è troppo poco controllo. C'è la parte sana, i giovani che escono per divertirsi ma c'è anche la parte che la frequenta per fare i suoi affari e lì servirebbe un monitoraggio organizzato, diverso, costante». Gli chiediamo se davvero la movida della città sia così violenta come è stata descritta e subito ci tiene a precisare: «Non è la movida di Colleferro ad essere violenta, in tutte le zone della provincia di Roma, di Frosinone e nelle altre dove lavoriamo ci sono i bulli, i violenti, i prevaricatori, le gang, le bande.

È così ovunque. Ma la maggioranza è fatta di ragazzi perbene. Quello che è realmente cambiato nel tempo è il modo in cui agisce la parte malsana. Prima si faceva la scazzottata, ora spuntano fuori coltelli, armi, pistole. E ciò che hanno in comune molti di quelli che stanno "al comando" di bande criminali, di spacciatori, in tutte le zone, è che praticano sport da combattimento per imparare a picchiare. Io sono un amante di questi sport ma per passione, perché insegnano la disciplina, l'autocontrollo. Questi personaggi lo fanno solo ed esclusivamente per imparare a picchiare duro. Così da farsi rispettare, prima con le mani. Poi, se serve, anche con le armi».

Ci spostiamo in un'altra zona della città. Una persona ci attende in un luogo lontano da occhi indiscreti. Conosce molto bene i luoghi del massacro. Sa chi sono i fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia, i principali indagati per l'omicidio. Li ha visti tante, troppe volte, agire con violenza e prevaricazione. Conosce nei dettagli cosa è accaduto quella notte costata la vita a Willy. Ha già raccontato tutto alle autorità, una testimonianza nero su bianco, per dare il suo contributo alle indagini.
Quando lo contattiamo ci dice che in questi giorni non è emersa proprio l'esatta dinamica della vicenda. Che ci sono molte imprecisioni, lacune e vuoti che non rendono chiara l'idea di quel pestaggio. Gli chiediamo se ha voglia di parlare. Accetta. Ma in quel luogo lontano da occhi indiscreti che stiamo per raggiungere. Non vuole che venga fatto il suo nome, racconta di aver già ricevuto minacce e che non è stato l'unico.

La ricostruzione del testimone
«Quella banda la conoscono tutti». E questa è la stessa frase pronunciata dalle tante persone che abbiamo incontrato ma lui, già in passato, ha avuto a che fare con la violenza dei fratelli Bianchi. Ci dice che le risse sono il loro pane quotidiano, un modo per affermare la loro supremazia. Lo fanno per dimostrare che sono i più forti. E poi picchiano per i debiti di droga. Gli chiediamo se può spiegarsi meglio: «Quelli non sono cani sciolti. Sono una vera e propria banda. Spacciano droga, anche qui nelle zone della movida di Colleferro. E chi non salda i debiti viene pestato». Stando alle carte degli inquirenti, tutti e quattro hanno precedenti per rissa, i fratelli Bianchi anche per spaccio. Racconta che quella sera i quattro accusati erano stati al "Duedipicche", avevano bevuto e, addirittura, aggredito verbalmente una donna delle pulizie facendola mettere a piangere.

Poi – sempre secondo la sua versione – hanno proseguito altrove la serata. La lite è iniziata molto dopo, quando i locali avevano già chiuso. È proseguita sulle scalette di fronte ai giardinetti. È volato uno schiaffo. Di lì la telefonata per avvisare la banda. Poi ribadisce con fermezza quello che sta raccontando: «Il suv è arrivato a folle velocità. Ha inchiodato davanti ai giardinetti, l'autista è rimasto in macchina, i quattro sono scesi. Hanno puntato l'amico di Willy. Il ragazzo ha cercato di mettersi in mezzo per evitare lo scontro e loro si sono accaniti su di lui. Il tutto è durato pochissimi istanti. Nessuno è riuscito a fermarli. Anche se ci hanno provato, non è vero che tutti sono fuggiti lasciando Willy solo. Ma quelli – si riferisce a Marco e Gabriele Bianchi – erano furie e sanno come e dove picchiare, fanno MMA non per la passione per quello sport. Sono bastati pochissimi colpi, Willy è finito a terra. Hanno continuato a colpire. Poi sono risaliti in auto e sono fuggiti».

Racconta che quando si sono allontanati, il ragazzo non aveva già più battito cardiaco. Sono stati chiamati i soccorsi ma è stato tutto inutile. Si interrompe, la voce si fa tremante. La commozione prende il sopravvento. «Questo era un delitto annunciato – prosegue dopo pochi minuti – ne ho visti tanti lasciati a terra dopo calci e pugni, sono stati solo più fortunati. Quelli della banda vanno anche in giro armati di coltelli e pistole. Cercano sempre la rissa per dimostrare chi comanda. Chi frequenta i luoghi nei quali vanno abitualmente lo sa. I giovani che vogliono divertirsi in maniera sana gli stanno lontano». Poi dice che Willy in quei locali lo aveva visto tante volte, era tra quelli che sono sempre stati alla larga da «quei criminali».
Poi, però, la strada di quel ragazzo che si era sempre tenuto a distanza da compagnie poco raccomandabili, ha incrociato quella dei Bianchi, di Pincarelli e di Belleggia e in pochi attimi il suo cammino si è interrotto, per sempre.

di: Roberta Di Pucchio

Un "pellegrinaggio" continuo. Giovani. Mamme con i loro bambini. Anziani. Amici e persone comuni. Arrivano silenziosi. Portano un fiore, un biglietto con su scritto un messaggio, un cero. Lo depongono lì, nei giardinetti in largo Oberdan, dove la notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre Willy è stato ucciso. Poi si fermano ad osservare quel luogo diventato il simbolo di un dramma che ha scosso l'Italia intera. I più hanno i volti solcati dalle lacrime. Gli occhiali da sole, quasi a voler proteggere quel dolore da sguardi
indiscreti. In altri prevale la rabbia, un sentimento comune a Colleferro.

A una settimana esatta dalla tragedia, quell'angolo della città è diventato il luogo dove omaggiare Willy. Dove ci si ritrova per sentirlo vicino e, forse, per sentirsi meno soli con quel sentimento di impotenza, con la sensazione di non aver fatto abbastanza. Willy è diventato il figlio di tutte le mamme che arrivano tenendo per mano i loro bambini. «Poteva essere mio figlio». È questa la frase che ripetono quelle che scelgono di parlare. La stessa che si legge nello sguardo di quelle che, invece, per la troppa commozione, scelgono di restare in silenzio. «Mio figlio ha più o meno l'età di Willy – ci dice una signora che ha appena lasciato un fiore tra i tanti adagiati a terra –

Ogni fine settimana frequenta i locali qui vicino, dove tutti i ragazzi di Colleferro e dei paesi limitrofi si ritrovano per stare insieme e divertirsi. Quando ho saputo cosa era accaduto mi sono sentita la mamma di Willy. Poteva esserci mio figlio al posto suo – prosegue – Adesso abbiamo paura. Ma anche tanta rabbia perché episodi come questo non possono e non devono accadere. I nostri ragazzi devono uscire e divertirsi come è giusto che facciano alla loro età. E non temere che per difendere un amico possano rischiare di non tornare mai più a casa». Ma Willy è diventato anche l'amico di tutti, quello dei tanti giovani che arrivano sul luogo del massacro. Uno di loro fa il segno della croce. È mingherlino, proprio come Willy. Avanza tremante, lascia un biglietto. Poi si mette in disparte e, con il volto nascosto tra le mani, piange.

Lui amico di Willy lo era davvero: «Quella sera non sono venuto qui, ero in un altro posto. Forse… Se fossi stato qui forse avrei potuto fare qualcosa per aiutarlo. Non lo so… Ma non c'ero, non l'ho aiutato e questo non me lo perdonerò mai». Non gli facciamo domande. Il suo è il sentimento che accomuna tutti i giovani che incontriamo. Amici, conoscenti e ragazzi comuni. Non sono arrabbiati e nemmeno troppo spaventati. Si sentono impotenti. Quasi come se non avessero fatto abbastanza per proteggere quel ragazzo che era uno come loro. Uno di loro. I più non vogliono parlare. Il dolore è troppo. Poi qualcuno si fa coraggio: «Quello che hanno fatto a Willy è una botta al cuore. Quello che è successo a lui poteva succedere a me e lui non c'entrava nulla. Io ero al Movida e sono andato via poco prima che accadesse la tragedia».

A parlare poi è un altro ragazzo, un giovane immigrato che da oltre un anno vive a Colleferro e che studia alla Sapienza di Roma. Frequenta anche lui i luoghi della movida. Non conosceva Willy ma quando ha saputo quello che era successo ha sentito anche lui il bisogno di raggiungere largo Oberdan per omaggiarlo: «Quello che è successo mi rende triste, nessun ragazzo che sia bianco, giallo, verde o nero deve morire così».
Al dolore delle mamme e a quello dei ragazzi si aggiunge, però, la rabbia di tante altre persone che arrivano sul luogo dell'omicidio. Si chiedono perché nessuno abbia fatto nulla per evitare una simile tragedia. Ribadiscono che Colleferro non è una città di criminali ma quella "banda" nella zona era conosciuta da tempo per la sua violenza e non solo.

E ora i cittadini si chiedono perché non sia stata fermata prima che potesse arrivare a tanto: «È inammissibile. C'è tanta rabbia. A Colleferro c'è tanta brava gente addolorata da quanto accaduto. Queste sono persone che da anni vengono a fare casino qui. E tutto questo si poteva evitare se li avessero fermati prima», sbotta un cittadino che insieme ad altri ha voluto portare il suo saluto a Willy. Gli altri applaudono, condividono quel pensiero. A Colleferro, una settimana dopo il brutale pestaggio che ha spento il sorriso contagioso di Willy, tra dolore, commozione, senso di impotenza e rabbia, prevale un sentire comune: pene certe e che sia fatta giustizia. Perché solo quando Willy avrà giustizia potrà riposare in pace.

di: Roberta Di Pucchio

I fratelli Gabriele e Marco Bianchi, e Mario Piancarelli, tutti di Artena, dopo il periodo di quarantena a cui ogni detenuto è sottoposto al suo ingresso nel penitenziario, continueranno ad essere in isolamento per evitare vendette in carcere. Saranno nel cosiddetto "braccio protetto" per evitare contatti con gli altri detenuti. La richiesta del loro avvocato Massimiliano Pica è stata accolta, sentito anche il parere favorevole del garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia.

I fratelli Bianchi e Pincarelli, nel carcere di Rebibbia dalla sera del 6 settembre (sono accusati di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro di Paliano) sono controllati a vista dalla polizia penitenziaria 24 ore su 24, controllati in maniera stretta e protetti, soprattutto tenuti ben lontani dai detenuti comuni, visto che in virtù del codice non scritto che vige in tutte le carceri del mondo per i tre, considerato il reato del quale si sarebbero macchiati, venire a contatto con i carcerati "comuni" potrebbe avere conseguenze molto pericolose.

E devono restare in celle singole altri sette giorni per via delle norme anti-Covid. Ma l'avvocato Massimiliano Pica, ha chiesto di prolungare il periodo di isolamento. Il motivo è la paura di ritorsioni nei loro confronti da parte di altri detenuti. Ai giudici e ai vertici del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria il legale aveva chiesto di tenere conto delle circostanze dell'arresto e dei rischi connessi, per tutelare l'incolumità dei suoi assistiti «che hanno diritto a una giusta detenzione».
E sono diverse le minacce soprattutto sui social arrivate agli imputati. Minacce di morte anche al loro difensore Massimiliano Pica. E Alessandro Bianchi, fratello maggiore di Marco e Gabriele, ha chiuso il suo bar per qualche giorno temendo ritorsioni.

di: Nicoletta fini

Le indagini per la morte di Willy Monteiro Duarte di Paliano continuano a 360 gradi. In carcere da una settimana ci sono i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, e Mario Pincarelli. Ai domiciliari Francesco Belleggia. Tutti sono accusati di omicidio volontario. Gli investigatori continueranno anche in questi giorni ad ascoltare altre persone che potrebbero aver partecipato alla rissa il 6 settembre scorso o che erano presenti sul posto, nei giardinetti di largo Oberdan a Colleferro (nonostante l'ora tarda sarebbero stati molti i ragazzi che erano anche davanti ai locali della movida in largo Santa Caterina e vicino alla zona dei giardinetti). Risposte potrebbero arrivare inoltre dai cellulari e dalle chat, intercorse in quelle ore tra gli indagati.

Al vaglio degli inquirenti, infatti, anche i cellulari e si attendono i risultati delle analisi degli indumenti indossati dagli imputati per cercare eventuali tracce ematiche del ventunenne. L'avvocato dei Bianchi e Pincarelli, Massimiliano Pica, deciderà, probabilmente già nelle prossime ore, se presentare istanza al tribunale del Riesame, mentre Vito Perugini, il difensore di Belleggia, per il quale è stata disposta la misura dei domiciliari, ha reso noto che non presenterà ricorso sulla decisione del gip. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia rischiano una condanna all'ergastolo in un procedimento che finirà davanti alla Corte d'Assise di Frosinone.

Willy è deceduto per i violentissimi colpi inferti dagli aggressori che hanno agito - è questa adesso l'ipotesi di chi indaga - «con la consapevolezza di provocare lesioni mortali». Dall'autopsia effettuata mercoledì scorso nell'istituto di Medicina legale di Tor Vergata dal professore Saverio Potenza sono stati riscontrati "politraumi" su tutto il corpo non solo sul torace, addome e collo, che hanno portato a un "grave shock traumatico" e quindi all'arresto cardiaco. Nel corso degli interrogatori i quattro imputati hanno fornito le loro versioni al giudice. «I Bianchi mi dissero di tacere». Uno dei dettagli emerso dal racconto al giudice delle indagini preliminari di Francesco Belleggia, il ventitreenne per il quale è stata disposta la misura dei domiciliari. Una sorta di patto del silenzio che i quattro avrebbero stretto in auto, sul Suv, mentre facevano ritorno ad Artena, mentre Willy moriva poco dopo prima di arrivare in ospedale. L'indagato ha riferito che, prima dell'arresto, i fratelli Bianchi gli avevano consigliato sul Suv di mantenere il silenzio sulle loro condotte. Nel racconto, una volta in macchina, i fratelli Bianchi avrebbero anche scaricato la responsabilità su Mario Pincarelli, l'unico che non viaggiava con loro. Ma Belleggia, che resta comunque indagato per omicidio volontario in concorso, dice di non aver visto «i colpi di Mario».

Sempre secondo quanto ricostruito i fratelli Bianchi, Pincarelli e un'altra persona sono arrivati sul posto chiamati da un amico (Marco Bianchi nell'interrogatorio ha sostenuto che stessero facendo sesso vicino al cimitero con tre ragazze di cui dicono di non conoscere i nomi) perché era scoppiata una lite tra alcuni amici di Willy e Belleggia a causa di una ragazza. I fratelli Bianchi e Pincarelli arrivano a lite sedata ma, come testimonia lo stesso Belleggia, scendono dal Suv e cominciano a picchiare selvaggiamente chiunque capitasse a tiro per poi infierire sul povero Willy.
Chi ha colpito Willy? Chi lo ha lasciato a terra dopo averlo colpito con calci e pugni? Chi gli è saltato addosso quando il corpo era già inerme. Domande a cui oltre ai testimoni e alle indagini, potrebbero dare risposta filmati o foto ripresi o scattate con il cellulare.

di: Nicoletta fini