Che cosa ci sta lasciando questa pandemia sul piano delle esperienze? Il modello sociale, di vita al quale ci siamo sempre ispirati fino ad oggi sta mostrando tutti i suoi limiti. Nell'emergenza sanitaria si sta vivendo un momento di rivoluzione sociale, culturale e ovviamente anche economica con un impatto fortissimo sulle nostre vite e si deve pensare che è necessario trasformare questo momento difficile e complicato in una opportunità per lo sviluppo di nuovi modelli di vita, di estrinsecazione della socialità. E in questo contesto un nuovo ruolo possono e devono assumere le città. Da molto, riprendendo una tesi sostenuta da Daniele Menichini ad esempio, si parla di rigenerazione urbana e forse ci si è focalizzati su questo concetto con la speranza che, come nelle città europee, questo modello decollasse e, invece, sono diventate due parole di cui la politica si è riempita la bocca spesso, ma non è stata capace di raccogliere le sollecitazioni e le proposte che venivano dai professionisti, imponendo regole che non puntavano veramente ad innescare un meccanismo di trasformazione delle città dal punto di vista della sostenibilità ambientale ed energetica.

La politica si è barricata dietro alle linee rosse che non volevano ulteriore consumo di suolo per rispettare l'ambiente, tralasciando completamente il fatto che con questo meccanismo si abbandonavano, invece, i territori fuori di questo perimetro a se stessi e si densificavano i centri delle città aumentando i carichi urbanistici, e, anche qui, nessuno ha voluto capire che si doveva, invece, andare verso il concetto di "non spreco" di suolo e rigenerare territori e città per recuperare gli scempi del dopoguerra, del boom economico e della speculazione edilizia.

La politica ha abdicato al suo ruolo di generatrice di qualità del paesaggio e della città e ha sostanzialmente lasciato che il concetto di bene comune e spazio comune diventassero un vincolo statico e che si degradassero degli spazi. Dopo il Covd-19, qualcosa dovrà inevitabilmente cambiare.
In piena pandemia, poi, c'è stata, giocoforza, la riscoperta della casa. La cellula di ogni abitato. I viali e le strade delle grandi città, e non solo, si sono svuotati. Con i centri commerciali chiusi, con le piazze vere deserte, la vita si è trasferita nelle case. Gli appartamenti sono diventati il nostro mondo. Affacciati su una desolazione che ci era ignota, una desolazione ora affascinante, come quella di un'infinità di centri storici, ora, terribile come quella di tante periferie. Gli spazi nei quali ci ritrovavamo dopo il lavoro si sono trasformati in una sorta di prigioni nelle quali rifugiarsi. Obbligatoriamente. Così ognuno ha iniziato e sta utilizzando gli spazi a disposizione. Perché si tratta proprio di un problema di spazi, ancora più di contesto. Ora più che mai. Superfici che influiscono. Condizionano esistenze. Le indirizzano, più o meno inconsapevolmente. Giuseppe Strappa, è docente di morfologia e progettazione urbana all'Università "Sapienza" di Roma, nonché presidente di IsufItaly International (Seminar on Urban Form, Italian network) ed editor di U+D, Urban form and Design magazine.

Professor Strappa, gli assetti urbanistici delle città possono aver avuto un ruolo nella diffusione del Covid-19? Qualcuno ha puntato l'indice contro la densità abitativa, che avrebbe, in qualche modo, "aiutato" la propagazione del virus.
«È una tesi che ho sentito, ma che non mi sento di condividere. La mia opinione è che il problema non sia costituito dalla densità abitativa delle nostre città, dei nostri paesi. La densità delle città è l'origine della vita stessa delle città. Non esiste una città che non sia  densa. La città nasce proprio in base alla necessità di densificare l'abitato, moltiplicare gli scambi, i commerci. Passata questa emergenza, le città rimarranno inevitabilmente dense. Anzi, uno dei temi sui quali si sta lavorando ultimamente è quello della densificazione, nel senso di concentrare politiche  e risorse verso un minor consumo del territorio. Al di là di tutto, io credo che questo dramma della pandemia offra, invece, una grande opportunità di riflessione. Ci siamo resi conto di come la città e la casa possano essere diverse, di come gli spazi, in generale, possano essere vissuti in modo nuovo. Io vivo a Roma. Nelle poche ore d'aria che mi son potuto concedere in queste settimane di lockdown, ho scoperto uno spazio urbano diverso da quello che conoscevo.

Una città che, paradossalmente, si è scoperta essere a dimensione umana, senza le macchine, senza il traffico, senza i turisti. Non vorrei essere frainteso: il turismo è una risorsa, e su questo siamo tutti d'accordo, ma, nel modo in cui viene gestito nelle grandi città, che richiamano milioni di persone all'anno, sta diventando un'emergenza. Ormai Roma è invasa per intero da bed and breakfast con tutto quello che ciò significa in termini di decadenza della vita civile. Oggi, a causa dell'emergenza sanitaria, noi, incredibilmente, stiamo vivendo una città più pulita, abitabile, non caotica e ci rendiamo conto che molti dei problemi derivano da un turismo di massa male amministrato e mal gestito. I problemi di Roma sono gli stessi di Venezia o di Amsterdam o di Barcellona, dove i cittadini si sono ribellati contro questo tipo di sfruttamento dissennato della bellezza delle città. L'altro aspetto interessante, che è emerso in questa situazione, è il ruolo svolto dalla casa. L'abitazione, per molti di noi che sono assorbiti dal lavoro e che passano la maggior parte della propria giornata fuori, la casa è stata, fino ad oggi, un luogo dove dormire e mangiare; non un luogo pienamente vissuto.

Abbiamo ora riscoperto un'idea di casa più cordiale, quella del "casa e bottega" medievale, dove al pian terreno c'era l'ambiente dove si lavorava e sopra le stanze dove si dormiva o si consumavano i pasti. Era una concezione organica dello spazio domestico, non specializzata. La pandemia ci ha insegnato che possiamo tornare ad un uso della casa più organico, dove ci siano anche uno spazio per il lavoro e uno spazio per l'incontro. Il ruolo diverso della casa non vuol dire, però, segregazione, azzeramento dei rapporti umani. È stato scritto molto contro lo smart working. Anche io spesse volte non ho mostrato entusiasmo, perché per certi versi può avere degli aspetti disumani. Bisogna apprezzare, tuttavia, le possibilità infinite di interscambio che questo strumento offre per entrare in contatto con una molteplicità di soggetti in ogni angolo del mondo. Ci sono, poi, altri indubitabili vantaggi riflessi che derivano da un uso coretto dello smart working: la diminuzione del traffico e il  risparmio sul tempo del trasporto che può essere, invece, dedicato ad altre attività: all'uso, ad esempio, della città in senso proprio, come luogo di aggregazione e condivisione. In questo senso, questa terribile fase della nostra storia può essere considerata un laboratorio in cui si sono sperimentate condizioni estreme, che ci hanno dato una prospettiva diversa per leggere la casa, lo spazio urbano, la vita nella città».

Oggi che consiglio si sentirebbe di dare a un amministratore pubblico che volesse riprogrammare il territorio?
«Una domanda da un milione di dollari. Tutta la letteratura che si è sviluppata sul territorio ha avuto come principio cardine il fatto che il territorio sia frammentato. Lo sprawl urbano è enorme, c'è una diffusione di case unifamiliari dilagante, un consumo enorme di territorio che, anche a causa di questo fenomeno, ha perso le sue qualità organiche. Le zone del Frusinate, ad esempio, si sono sviluppate nei secoli antichi in maniera organica su percorsi di crinale, ancora molto evidenti oggi. C'era un percorso generale, un grande percorso che attraversava gli Appennini. Le varie tribù erniche, volsche, latine si sono spostate lungo questi percorsi, lasciando una traccia indelebile. Un uso del territorio che era legato a una gerarchia tra le strade e tra gli insediamenti leggibile anche nei tempi moderni.

Esisteva un rapporto di necessità tra vie di comunicazione, aree produttive e insediamenti.
È chiaro che tutto questo non poteva non cambiare con il passare dei secoli, però il mutamento è avvenuto in maniera disorganica ed empirica. Io credo che questi grandi principi di solidarietà tra forma del suolo e uso antropico del territorio dovrebbero essere ristabiliti, anche nei tempi moderni. Può sembrare un'idea astratta, inattuale, una sorta di ritorno al passato, ma non è così. Si dovrebbe cercare di recuperare questa dimensione, che porterebbe risultati importanti tra cui il recupero dell'identità. Un altro consiglio mi sento di dare: oggi va di moda l'architettura del lusso, quella spettacolare, destinata a una ristretta élite con edifici che poche persone possono permettersi; la pandemia ci ha fatto capire che la disponibilità di risorse non è eterna, che un giorno potremmo ritornare poveri; per questo dovremmo tornare a un uso "frugale" dell'architettura, cercando di capire che va disegnata per gli uomini, con soluzioni congruenti con le forme della città e dell'economia».

Oggi vanno di moda le task force, ma gli architetti ne sono rimasti esclusi. Lo trova giusto?
«L'architettura in genere si adatta poco alle emergenze. Mi rendo conto di dire una cosa magari impopolare tra i miei colleghi, ma credo che quella attuale sia un'emergenza essenzialmente sanitaria, che probabilmente inerisce poco con la forma della città e del territorio. Credo che, in questo momento, l'esigenza principale sia quella di salvare le vite umane. Poi si potrà pensare a come riprogrammare il territorio. Oggi è giusto che parlino gli esperti della scienza medica»

È innegabile che il quadro normativo vada ripensato, considerato i disastri degli ultimi decenni. Servirebbe una nuova legge sull'architettura.
«Sicuramente. Passata la pandemia si dovrà ripensare il modello di città. Prima si parlava della città densa. La città densa può funzionare bene. Io credo che noi non dobbiamo avere in mente uno schema che favorisca il distanziamento sociale, per usare un'espressione in voga anche se impropria. Uscirà, non so quando, un vaccino, una cura efficace e le cose ritorneranno alla normalità. Quella che resterà, sarà la memoria del trauma vissuto che ha innescato nella mente degli abitanti la convinzione che la città possa essere diversa da come l'abbiamo conosciuta e vissuta fino ad oggi. Va senza dubbio operato un uso migliore, più razionale delle risorse che abbiamo, perché si è capito che non sono infinite. In questo senso un quadro normativo più moderno e chiaro può senz'altro aiutare».

Lei parlava di risorse. Che non sono infinite. Cosa si deve pensare per il futuro?
«Noi dobbiamo pensare ad un uso produttivo degli investimenti. In Ciociaria, ad esempio, ci sono dei centri storici che sono dei veri e propri gioielli, ma che sono drammaticamente abbandonati. Perché le persone, troppo spesso, preferiscono fare sacrifici, anche enormi, per costruire case nuove, invece di andare ad abitare in immobili suggestivi già esistenti. Il problema sta tutto nell'accessibilità. Se compro una casa in uno di questi centri storici, debbo mettere nel conto tempi biblici di spostamento per raggiungere i luoghi di lavoro, soprattutto quando questi sono concentrati a Roma. Molte volte, poi, non ci sono i servizi. Tutto ciò comporta che questi luoghi ameni, carichi di storia, vengano abbandonati. La chiave di volta è quella di investire in accessibilità.

Si dovrebbe creare una rete infrastrutturale tale da veicolare e favorire il recupero di un patrimonio edilizio abbandonato che a lungo andare può costituire anche un problema economico, sociale, sanitario e di sicurezza se non valorizzato. In questo modo, questo patrimonio, da problema si trasformerebbe in opportunità, acquisendo un non indifferente valore di mercato e rivitalizzando centri destinati a un lunga agonia di spopolamento. Ne deriverebbe un beneficio riflesso anche per le grandi città che vedrebbero allentare la pressione urbanistica, perché a quel punto, con collegamenti veloci e facili, un romano, giusto per fare un esempio, potrebbe benissimo decidere di andare a vivere in provincia, migliorando notevolmente la sua qualità della vita».
Un discorso complicato, se si pensa che Roma assorbe il 90% delle risorse pubbliche...
«È vero Roma assorbe molte, troppe risorse. Andrebbero ripartite in maniera più equa con il resto del territorio e una scelta del genere andrebbe anche nell'ottica  di una  maggiore e migliore gestione della Capitale. Aiutare il territorio circostante aiuterebbe Roma a vivere decisamente meglio».